Conte balla da solo

Alla fine Conte si è ritrovato a ballare da solo, risolvendosi il suo tentativo di cambiare il M5S in un inutile abbaiare alla luna. Dopo la rottura con Davide Casaleggio, figlio del defunto Gian Roberto e creatore della piattaforma Rousseau, Conte ha dovuto fare i conti con le ire del fondatore Beppe Grillo. Per l’ex comico, infatti, Conte non sa quello che dice, mirando le sue proposte a stravolgere l’essenza del Movimento e ad attribuirgli un DNA  moderato che storicamente non gli appartiene. Esso, già abbastanza nervoso per le vicende giudiziarie riguardanti il figlio Ciro, ha poi affermato che è Conte ad avere bisogno di lui e non il contrario, sottolineando quanto sia ancora necessaria la sua presenza nel Movimento per garantire ad esso un futuro. Grillo ha, infine, lodato l’operato di Luigi Di Maio, definendolo il miglior ministro di tutti i tempi, elevandolo di fatto al ruolo di leader del M5S. La risposta di Conte non si è, tuttavia, lasciata attendere. Nella conferenza stampa di ieri, svoltasi nella sala del Tempio di Adriano, l’ex premier ha manifestato tutto il suo disappunto per le parole e l’atteggiamento del fondatore, denunciando un clima teso nello stesso Movimento che fino a pochi mesi fa lo reputava uno statista. Conte ha spiegato che non è sua intenzione rimanere in un partito che lo considera alla stregua di un “prestanome” o di un leader dimezzato dipendente in tutto e per tutto dalle scelte del garante. Il giurista pugliese ha poi accusato Grillo di comportarsi come un padre padrone, colpevole a suo dire di voler mantenere la sua creatura in uno stato di minorità intellettiva e, di conseguenza, politica. A conclusione del suo intervento, Conte ha comunicato ai giornalisti che oggi consegnerà lo statuto da lui elaborato al garante Grillo e al reggente Crimi. Tale richiesta è per Conte condizione imprescindibile per poter continuare a far parte del Movimento, essendo ormai necessario mettere un punto fermo alla situazione venutasi a creare. Un avvertimento che suona sempre di più come un preludio a una scissione, a un lacerante addio destinato a disorientare ulteriormente la base grillina. In verità , per quanto possa sembrare il suo naturale sbocco, la scissione non  può dirsi ancora certa. Anche quando nacque il governo Draghi si paventò tale scenario e poi questo non si realizzò. Allora il presunto leader dei ribelli, Alessandro Di Battista, preferì dire addio al Movimento piuttosto che provocare una spaccatura. Una scelta di responsabilità che non è detto Conte sia disposto a ripetere. Il Movimento, infatti, ha più che dimezzato negli ultimi 3 anni i consensi, perdendo parte della  forza propulsiva che lo distingueva all’inizio. È ,dunque, implicito che se Conte decidesse di uscire dal Movimento, fondando un suo partito, finirebbe per mettere una pietra tombale su tutta la vicenda politica del M5S. Sarà probabilmente per questo che molti nel Movimento stanno seriamente pensando di sbarazzarsi dello scomodo Conte piuttosto che conferirgli l’impietoso  compito di commissario liquidatore del M5S . Tuttavia, è appena il caso di dirlo, tale tentativo, qualora Conte non avesse intenzione di abbandonare la cosa pubblica, è destinato miseramente a fallire. Così come è destinato a rappresentare, considerando l’elevato clima di sfiducia dei cittadini verso la politica,  un’avventura a durata limitata  nel tempo la fondazione di un partito da parte dell’ex avvocato del popolo. Si, perché nell’immaginario collettivo egli rappresenta comunque il premier del M5S e a poco servirebbe creare una nuova forza politica, moderata e centrista, che verrebbe percepita come non autentica dagli elettori. Ciononostante, è assai plausibile che questo identico ragionamento sia stato fatto, pur con toni diversi, da tutti gli attori in causa. Una scissione in un periodo come questo, in cui tutti i partiti vivono una crisi profonda, dividersi sarebbe un autentico suicidio per chiunque. E Grillo non è così ingenuo  da innescare uno psicodramma  proprio in casa sua, incedendo negli stessi vizi che proprio lui ha a lungo denunciato e di cui, in pieno stile Shakespeariano, sembra oggi farne le spese il movimento da lui creato.

Prove di disgelo

Era dal 1985 che Ginevra non ospitava un summit internazionale fra Russia e Stati Uniti. Allora c’era ancora la Guerra Fredda, le relazioni fra Usa e Urss erano ai minimi termini e nessuno era disposto a credere in un plausibile successo di qualsiasi negoziato fra Reagan e Gorbacev. Il primo, infatti, aveva già avuto modo di mostrare i muscoli, accusando l’Urss di essere una minaccia per la pace mondiale e per la convivenza pacifica fra gli uomini. Non a caso, appena due anni prima, nel corso di una conferenza stampa in Florida, definì l’Unione Sovietica “l’impero del male”, ventilando l’ormai concreta possibilità di un imminente conflitto armato con la Russia. Il secondo, invece, pur non discostandosi dalla linea di chi lo aveva preceduto alla guida del Cremlino, vedeva nel dialogo con l’occidente( Perestrojka) e nel disgelo( glasnost) la soluzione che avrebbe permesso alla Russia di modernizzarsi e di avviarsi sulla strada della democrazia. La distanza siderale tra i due contendenti globali, tuttavia, si ridusse nel giro di pochi anni, portando all’avvento di una nuova era, sicuramente più promettente rispetto a quella atomica appena conclusasi. Oggi la situazione è radicalmente diversa, perché altre potenze si sono affacciate sullo scacchiere internazionale. È anche vero, però, che non tutto quello di cui Biden e Putin hanno discusso è da ritenersi irrilevante. Dopo giorni di tensione, i due leader hanno convenuto sulla necessità di confrontarsi su questioni dirimenti per il futuro dell’umanità. Biden, al riguardo, ha voluto precisare che non è nelle intenzioni della sua amministrazione demonizzare la Russia, ma solo difendere i diritti del popolo americano. Toni distesi che hanno permesso di incanalare il dialogo verso una direzione maggiormente costruttiva. Un successo che anche lo stesso Putin è stato costretto a riconoscere. Il presidente russo ha, inoltre, lodato l’integrità morale e l’indiscussa esperienza politica del suo interlocutore, reputandolo uno statista più avveduto di Donald Trump. I due leader hanno altresì convenuto sulla necessità di avviare un proficuo dialogo su dossier ritenuti di importanza fondamentale per le loro relazioni bilaterali. In particolare, per quel che riguarda le armi nucleari, tanto Biden quanto Putin sono stati d’accordo sul fatto di ridurne la proliferazione, aggiornando il trattato New Start del 2009. Convergenze che si sono rilevate anche sull’urgenza di adottare misure a difesa dell’ambiente e di contrasto ai cambiamenti climatici. Qualche passo in avanti si è registrato anche sulla questione dell’Ucraina, avendo Putin per la prima volta lasciato intendere di non opporsi a un eventuale arbitrato internazionale. Fin qui i punti di contatto, ma non sono mancate le immancabili divergenze. Sui diritti umani Biden è stato irremovibile. Ha infatti chiesto conto a Putin delle ripetute violazioni dei diritti umani in Russia e delle persecuzioni verso i dissidenti. In particolare, su Alexey Navalny, Putin ha dichiarato alla stampa straniera che costui ha ripetutamente violato le leggi russe e che per tali ragioni non potrà essere rimesso in libertà. Ha poi obiettato che non accetterà in nessun modo lezioni di civiltà da chi viola i diritti dei prigionieri di guerra detenuti nella fortezza di Guantanamo. Il presidente russo ha infine smentito qualsiasi accusa rivolta dagli Stati Uniti riguardo alle presunte interferenze cibernetiche nelle elezioni americane, ritenendole pure congetture destituite di ogni fondamento. Schermaglie, dunque, che riecheggiano quelle tipiche della Guerra Fredda, ma che stridono con il panorama globale a cui si riferiscono. Se, infatti,allora il nocciolo della questione era il controllo del pianeta da parte di uno dei due blocchi, oggi il problema vero è un altro ed è costituito dalla Cina. La crescita del “Dragone” e il suo progressivo espandersi su tutti i continenti della Terra ha propriamente messo in crisi gli assetti strategici delle due tradizionali superpotenze, generando preoccupazioni e accrescendo il nervosismo. Un livello di tensione talmente alto che, complice anche la triste vicenda del Coronavirus, ha indotto Biden a mettere in guardia gli alleati europei e a cercare un canale di dialogo con la Russia. Ciò al fine evidente di rinsaldare l’alleanza atlantica e arginare la Cina, separando Pechino da Mosca. Una sottile strategia, dunque, quella messa in atto da Joe Biden, che ha già fatto parlare di un nuovo corso della politica estera Usa. Nuovo corso,che mirando a ristabilire gli equilibri globali a favore degli USA, ha già sortito l’effetto di impensierire i rivali dell’occidente, provocando il disgelo delle relazioni fra Usa e Russia. Un risultato certamente non di poco conto se si considera quanto il fronte orientale era coeso fino a pochi mesi fa.

L’incaricato speciale

Sono passati 10 giorni dalle dimissioni di Giuseppe Conte e del suo governo e ancora, nonostante si siano moltiplicati i segnali incoraggianti, non si vede l’uscita dal tunnel della crisi più pazza della storia repubblicana. Una crisi che sembra destinata,  dopo il fallito tentativo di rimettere insieme la maggioranza da parte del presidente della Camera, Roberto Fico, a trovare il suo epilogo nella nascita di un “governo del presidente” presieduto da Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e presidente della Bce. Tramontata, dunque, l’ipotesi di mettere una pezza al governo Conte( rivelatosi non a caso una vera e propria foglia di fico) ecco spuntare dal cilindro di Mattarella l’opzione Draghi, l’uomo che salverà la patria e che traghetterà l’Italia fuori dal mare in tempesta della pandemia. Tuttavia, il nome di Draghi, ritenuto da molti una garanzia visto lo spessore della persona e l’indiscutibile accreditamento di essa presso le più importanti istituzioni internazionali , non ha mancato di dividere e animare il dibattito politico italiano. Tanti sono stati, infatti, i mugugni nell’ex maggioranza giallo-rossa, specialmente da parte di chi fino all’ultimo aveva sperato in cuor suo di vedere nascere un nuovo governo Conte e che ora si ritrova costretto, più per spirito di autoconservazione che per amor di patria, a votare la fiducia al nuovo esecutivo. Non a caso, nelle ultime ore, si sta  profilando l’eventualità che a sostenere il governo Draghi sarà una maggioranza molto ampia, a riprova che nel nostro paese la salvaguardia del seggio e dei privilegi sembrano essere diventati la principale preoccupazione di una fetta consistente dell’attuale classe dirigente. Ciò nonostante si registrano sensibilità diverse e pertanto il percorso da qui al giuramento del nuovo esecutivo potrebbe rivelarsi meno agevole del previsto. Se, difatti, Draghi ha già ricevuto l’appoggio delle ali moderate del emiciclo, al contrario in quelle estreme stanno proliferando le distinzioni e i dubbi sulla strada da intraprendere. In tal senso, la scelta più interessante sarà quella del M5S,  passato nelle ultime ore da un deciso rifiuto verso questa ipotesi a una posizione più conciliante e propositiva. Le principali obiezioni poste dal Movimento grillino, che oggi incontrerà il presidente incaricato e parlerà per bocca del suo leader, Beppe Grillo, per l’occasione giunto a Roma, riguardano essenzialmente il passato di Mario Draghi. Un passato, che come quello di molti uomini di potere, cela luci e ombre e suscita quindi pesanti interrogativi. Draghi verrà senz’altro ricordato come colui che ha salvato la moneta unica dalla propria dissoluzione, come colui che ha fatto di tutto( whatever it takes) per impedire il crollo dell’edificio europeo quando la speculazione internazionale mordeva le sue giunture. Tuttavia, molti in questi giorni ricordano le parole pronunciate più di dieci anni fa dal presidente emerito della Repubblica , Francesco Cossiga, il quale definì Draghi un vile affarista, reo di aver svenduto l’industria pubblica italiana a Goldman Sachs e alle banche d’affari mondiali. Cossiga citò al riguardo la crociera sul Britannia del 1992, in cui Draghi era presente e dove fu decisa a tavolino la svendita dell’ IRI  e degli altri colossi di Stato( cosa che è poi avvenuta pochi anni dopo ). Ora, nel 2021, a seguito di una crisi che si presta ad essere corollario della disfatta totale del ceto politico del nostro paese, una crisi innescata più dalla mania di protagonismo dei suoi attori che per divergenze reali sui contenuti, l’opzione Draghi, salutata da Cossiga come un’autentica sciagura per il paese, è diventata realtà. Il presidente incaricato terminerà oggi il suo primo giro di consultazioni fra i partiti e ha già fatto sapere che Lunedì incontrerà le parti sociali. Un segnale notevole e che va nella giusta direzione di ricostruzione di un paese colpito duramente dalla crisi socio-economica scatenata dalla pandemia e che si spera possa illuminare l’operato del nuovo esecutivo. Si, perché l’ora è grave e il paese ha bisogno di risposte. L’epidemia non accenna ad arretrare e il piano vaccinale di Arcuri ha mostrato significative crepe per ciò che concerne la distribuzione dei sieri. I molti posti di lavoro che sono stati bruciati necessitano di investimenti per essere recuperati e non di nuovi tagli lineari come quelli fatti dal governo Monti dieci anni fa. Sarà per questo che il nascente governo si sta modellando sullo schema del governo Ciampi del 1993, un governo tecnico ma che vedeva la partecipazione politica di importanti esponenti nei dicasteri di peso. Per questi motivi, in attesa di assistere all’avvento dell’era Draghi, chi scrive si riserva di astenersi dal formulare qualsiasi giudizio squisitamente politico sul nuovo esecutivo. Vano sarebbe, infatti, negare un moderato scetticismo verso l’ennesimo ricorso a una soluzione tecnica per risolvere problemi di altra natura, ma tanto è. Pertanto aspettiamo Mario Draghi alla prova dei fatti, tanto a cambiare idea si fa sempre in tempo.                                                                                                                Articolo di Gianmarco Pucci

La crisi fantasma

Dopo mesi di avvertimenti, accuse, annunci e smentite, la tanto attesa crisi di governo si è finalmente manifestata in tutta la sua opacità. Il fatto non sorprende se si considera che già da molte settimane erano in essere i prodromi della tempesta perfetta abbattutasi sull’esecutivo. Ciò che lascia sbigottiti è il modo e la tempistica con cui Matteo Renzi ha deciso di trascinare il paese verso una crisi al buio, ordinando ai suoi ministri di abbandonare l’esecutivo. Renzi ha accusato la maggioranza di aver posto le premesse per la fuoriuscita di Italia Viva dal governo, adducendo a pretesto il rifiuto dei grillini di avvalersi del MES sanitario e quello di Conte di cedere la delega sui servizi segreti a una persona diversa dal Presidente del Consiglio dei Ministri. In verità, come evidenziato anche da molti osservatori e analisti politici, la realtà è sensibilmente diversa e il ragionamento di Renzi sembrerebbe rispondere più a un calcolo personale che a una reale divergenza sui contenuti dell’azione di governo. Il ragionamento, però, mai come in questo caso rischia di rivelarsi non solo errato, ma anche di favorire altri pronti ad approfittare della situazione a loro favore. Se il momento non fosse così drammatico, con gli italiani alle prese con la terza ondata del Coronavirus, verrebbe quasi da sorridere innanzi al delirio di onnipotenza di un piccolo leader passato in 10 anni da rottamatore a rottamato della politica e che pensa di sopravvivere rispolverando tattiche  vagamente macchiavelliche. Certo “tirare a campare è meglio che tirare le cuoia” diceva Giulio Andreotti, ma è anche vero che il suicidio è un peccato mortale e quello di Matteo Renzi e dei suoi accoliti è un suicidio di quelli destinati a fare la storia. Una fine ingloriosa, consumatasi nel segno del tradimento e delle menzogne, ma che chiude innegabilmente un’epoca e sulle cui ceneri, come l’Araba Fenice, si prepara a nascere un nuovo fenomeno politico: quello dei “costruttori”. Il nome, a differenza di quello precedente dei “rottamatori”, sembrerebbe essere più promettente se non fosse che ci si trova innanzi all’ennesimo caso di trasformismo che da secoli anima le cronache parlamentari del bel paese. Nel caso in esame, sempre per citare Macchiavelli, il fine che giustifica i mezzi è quello di garantire la tranquilla e ordinata prosecuzione della legislatura e consentire in tal modo a deputati e senatori di salvare vitalizio e pensione. E In virtù di questa nobile causa molti si preparano a cambiare posizione e a venire in soccorso di Conte, il quale non sembrerebbe in queste ore avere alcuna intenzione di dimettersi né di formalizzare in alcun modo la crisi. In tal senso il comportamento del premier è stato incomprensibile quasi quanto quello di chi ha voluto a tutti i costi rompere l’accordo di governo. Incomprensibile, perché per prassi istituzionale il governo dovrebbe rassegnare le dimissioni in caso di dissoluzione della maggioranza che lo sostiene o quanto meno informare tempestivamente le Camere e non affidarsi a giochi di palazzo. Giuseppe Conte, invece, sembra aver deciso di seguire quest’ultima strada, confidando nella magica materializazzione di una nuova maggioranza in aula che gli permetta di rimanere a Palazzo Chigi per altri due anni. Una scelta questa costituzionalmente legittima, ma discutibile sul piano del merito e per la quale Conte potrebbe pagare pegno nel prossimo futuro. Infatti, a prescindere da ciò che accadrà Lunedì e Martedì, il governo Conte ter sarà un governo debole, logorato, appeso alla volontà di un drappello di parlamentari intenzionati a non perdere il seggio e i privilegi ad esso connessi. Uno spettacolo a dir poco indecente, che segna il tramonto nel nostro paese della democrazia parlamentare, non essendo certamente i voltagabbana sinonimo di virtù e senso delle istituzioni. Finanche Clemente Mastella, inizialmente tirato in ballo e ritenuto il regista di questa operazione di palazzo, si è tirato fuori dal progetto politico in atto  dopo la polemica che lo ha visto coinvolto con Carlo Calenda. Dissociazione che rende bene l’idea del caos che aleggia nelle istituzioni e che vede ridiventare determinanti piccoli partiti e vecchi leader, i quali cercano di intestarsi il successo di un’ operazione politica dagli esiti tutt’altro che scontati.

Cronaca di un’insurrezione

Il 6 Gennaio 2021 verrà a lungo ricordato come uno dei giorni più infausti per la storia della democrazia moderna, una parentesi buia per gli Stati Uniti e per tutto il mondo occidentale. Nel giorno dedicato dai cristiani alla festa dell’Epifania, la follia si è impadronita di un’intera nazione sprofondandola nell’abisso della violenza e della barbarie. Mai era capitato di vedere un parlamento assalito con tanta brutalità da una folla inferocita e soprattutto mai  ci si sarebbe aspettati che a venire violato sarebbe stato il tempio della democrazia a stelle e strisce. Per un giorno la nazione guida dell’Occidente si è trasformata, con grande gioia dei suoi avversari, in una “repubblica delle banane” sudamericana, dove tutto può essere messo in discussione a dispetto di quanto prescritto dalle leggi. Per la prima volta in oltre duecento anni di attività il Congresso degli Stati Uniti, riunitosi per certificare ufficialmente la vittoria di Joe Biden alle elezioni dello scorso 3 Novembre, si è ritrovato a fare i conti con la furia cieca di un popolo che non riconosce più la sacralità del suo perimetro. In verità il fuoco covava sotto la cenere già da tempo, pronto a divampare alla prima occasione propizia. In questo caso l’occasione è stata offerta dal conteggio finale dei voti dei grandi elettori da parte delle Camere, una fase puramente formale che ha visto la definitiva proclamazione di Biden come presidente degli Stati Uniti dopo mesi di aspre polemiche. Tali contestazioni sono, infatti, state al centro del dibattito politico americano degli ultimi due mesi, non avendo il presidente uscente Donald Trump voluto riconoscere la vittoria dell’avversario. Da settimane Trump parla di frodi, di elezioni rubate ed esercita pressioni indebite per  sovvertire quanto affermatosi nelle urne. Alla fine la sua gente ( definita “un meraviglioso popolo di patrioti”) lo ha ascoltato ed esaudito, insorgendo contro quel parlamento a lui sempre più inviso. Per ore, al grido di “fermate il furto” decine di suoi sostenitori  hanno vagato armati per i corridoi del Congresso, devastando locali , uffici e ingaggiando scontri con le forze di sicurezza poste a presidio del Campidoglio. La gravità della situazione ha  chiaramente costretto gli agenti del servizio segreto ad evacuare il palazzo e a interrompere la seduta parlamentare, ripresa solo a tarda notte, dopo cioè la messa in sicurezza dell’area da parte della Guardia Nazionale. Drammatico è stato il bilancio delle vittime al termine dei tumulti: 4 morti, 13 feriti, oltre 60 arresti e un’ infinità di polemiche sull’inefficienza delle misure di sicurezza poste a difesa del Congresso. Ora dopo la tempesta è tornata la quiete, ma tanti sono gli interrogativi e  i dubbi che aleggiano intorno a questa triste vicenda. Joe Biden, che giurerà come presidente il prossimo 20 Gennaio, ha accusato Trump di essere il responsabile morale e politico dell’assalto al parlamento degli Usa. Nel suo ultimo discorso ha spiegato al suo avversario che il presidente non è un monarca assoluto, che il Congresso non è una Camera dei signori, che la giustizia non è al servizio del potere esecutivo. Biden ha poi parlato della fragilità in cui versa la democrazia e della necessità di ricostruirla nei prossimi quattro anni, garantendo il ripristino della legalità e l’osservanza della Costituzione. Un appello che è stato accolto favorevolmente anche da tutti gli altri ex presidenti, a partire da George W Bush, il quale subito dopo gli scontri aveva condannato l’atteggiamento insensato di Trump e del suo esercito di estremisti. Proprio le prossime mosse del Tycoon newyorkese sono quelle che suscitano il maggiore interesse da qui al 20 Gennaio. Subito dopo la proclamazione di Biden, non smentendo la sua teoria dei brogli, Trump ha promesso che la transizione da qui al 20 Gennaio sarà ordinata e senza pericoli. Una parziale marcia indietro che, in virtù dell’imprevedibilità del soggetto, è stata accolta tiepidamente da molti anche nel suo stesso partito. Non è infatti una sorpresa che da ieri a Washington si sta ragionando su una possibile rimozione forzata del presidente attraverso l’applicazione del 25esmo emendamento qualora Trump dovesse tornare sui suoi passi. Dunque, come si può facilmente dedurre, la strada da qui ai prossimi 12 giorni è lastricata di incognite, di incertezze e di insidie. Il timore che ciò che è avvenuto il 6 Gennaio possa ripetersi non fa dormire sonni tranquilli a più di una persona. A essere in gioco è la sopravvivenza della democrazia americana e probabilmente non solo quella..

Tanto rumore per nulla

C’era una volta una barzelletta in cui un italiano condannato alla ghigliottina scampava, miracolosamente, alla decapitazione a causa di un difetto della lama, provocando l’ira di un boia incredulo davanti a tanta fortuna. La metafora, fuori da qualsiasi riferimento letterale, sembrerebbe alludere a Giuseppe Conte. Il premier, infatti, si è rivelato un osso più duro del previsto, essendo riuscito in questi mesi a mantenere l’equilibrio nonostante la sua poltrona abbia traballato vistosamente più volte. Come avvenuto negli ultimi giorni sul Mes, lunga diatriba apparentemente conclusasi ieri con il voto favorevole di Camera e Senato e che aveva provocato inquietanti  fibrillazioni nella maggioranza di governo. A far temere, in particolare, per la continuazione dell’esecutivo ( e della legislatura) erano state le dichiarazioni del leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che non aveva escluso un’ uscita  dalla maggioranza a fronte dell’insistenza di Conte nel volere istituire una cabina di regia per gestire i fondi del Recovery Plan. Una levata di scudi che ha visto il senatore fiorentino prima minacciare la crisi di governo e poi fare marcia indietro dopo aver avuto le opportune garanzie sull’impiego del Mes da parte dell’Italia. Proprio Renzi, intervistato dal Tg2, si era espresso in tal senso, giudicando una follia la richiesta di Conte di attribuire a una task force il compito di gestire il denaro dell’UE. Sempre Renzi aveva criticato l’operato del Presidente del Consiglio, a suo dire poco rispettoso delle prerogative parlamentari, e minacciato una crisi di governo nel caso in cui l’esecutivo non avesse ottenuto la fiducia delle Camere. Tanto rumore per nulla, quindi, ma che preannuncia un nefasto quanto probabile temporale che arriverà nei prossimi mesi, da quando cioè con l’arrivo del vaccino anticovid si inizierà a vedere la luce in fondo al tunnel della pandemia. Il via libera al Mes, infatti, ha notevolmente intorpidito  le acque nel M5S, dando un colpo mortale a quello che era l’ultimo caposaldo del loro programma elettorale. Una giravolta, l’ennesima in verità, che ha indotto una parte dell’opposizione ad accusare ,durante la seduta alla Camera, i deputati grillini di tradimento del proprio mandato elettorale. Particolarmente dure sono state al riguardo le parole riservate alla maggioranza da Claudio Borghi (Lega) e da Giorgia Meloni (FdI), colpevole a loro dire di tenere all’oscuro gli italiani sulla reale situazione del paese per ciò che concerne il contenimento dell’epidemia e la gestione dei fondi europei. Discorsi che testimoniano l’esistenza di un’ opposizione agguerrita, di duri e puri o che perlomeno vuole far credere di esserlo. Non si deve, infatti, ritenere che le divisioni alberghino solo nel centrosinistra , essendo le crepe di quest’ultimo, a causa della sua connaturata litigiosità, solo più evidenti rispetto a quelle del centrodestra. Proprio in questi giorni, infatti, era stata ventilata l’ipotesi di un possibile smottamento di pezzi dell’area centrista, come Cambiamo! di Toti, l’Udc e Noi con l’Italia, disposti a venire in soccorso dell’esecutivo in caso di un plausibile tracollo. Ipotesi resa credibile, più che da un probabile smarcamento dalla maggioranza  al Senato del gruppo di Italia Viva, dal rischio, paventato in questi giorni da alcuni giornali, che ha intonare il De Profundis per il governo Conte bis sarebbe stata una presunta fronda in seno al corpo parlamentare del M5S. Fronda che si è poi ridotta a poche decine di parlamentari, del tutto ininfluenti per mettere a rischio la tenuta della maggioranza. Una differenza determinante che ha permesso di tacitare le cassandre e gli uccelli del malaugurio, ma che non permette, tuttavia,  di esultare e pontificare sullo scampato pericolo. Difatti, Matteo Renzi, dopo la fiducia da parte del Senato, è tornato a mettere in guardia l’esecutivo, chiedendo un cambio di passo urgente, pena l’apertura verso scenari alternativi. Sinistri avvertimenti, dunque, che innervosiscono più di uno e restituiscono l’immagine di una classe politica in balia di se stessa, senza timone né timoniere, in cui più che la salute  degli italiani a venire salvaguardata è l’interesse di cappa e di spada. In tal senso, per riprendere la metafora dell’inizio, diventa difficile stabilire chi sia la vittima e il carnefice e soprattutto chi sopravviverà alla lama del boia in questo turbinio incessante di eventi imprevedibili. Siamo alle idi di Marzo sebbene qualcuno al governo non pare essersene reso ancora conto.

Stati confusionali

Domenica si sono svolti, dopo tanti rinvii, gli stati generali del M5S. Il Movimento, che allo stato attuale rappresenta la principale forza politica presente in parlamento e nel governo, ha colto l’occasione del congresso per analizzare la propria situazione e fare il punto su un  futuro che non sembra più tanto roseo  dopo gli scarsi risultati conseguiti alle ultime elezioni amministrative. Nel dibattito che è seguito alla relazione introduttiva del reggente, Vito Crimi, si sono riproposte poi le divisioni che ormai da mesi sferzano il Movimento. Uno scontro tra governisti e ribelli che ha investito anche alcuni dei capisaldi del programma originario del movimento fondato da Beppe Grillo come il vincolo del doppio mandato , il nodo delle alleanze e soprattutto la guida del M5S. Al termine dei lavori si è optato per una sintesi fra le varie posizioni emerse nel congresso, stabilendosi il limite di due mandati per le candidature, il no ad alleanza non programmatiche e l’assegnazione della guida del Movimento a un organo collegiale. Tuttavia, questo non ha dipanato la confusione che aleggia nel partito e che registra pesanti ripercussioni anche nell’attività di governo. Infatti, in questi ultimi tempi si è visto come il governo  di Giuseppe Conte abbia drammaticamente tentennato davanti all’impennata di contagi da Coronavirus, rendendosi responsabile di diatribe di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Ciò è avvenuto, in particolar modo, nel rapporto con le regioni, che hanno approfittato della debolezza del governo per far pesare la loro influenza  nell’adozione delle misure sanitarie anticovid. Un fatto increscioso che non solo getta un ombra sull’operato di alcune giunte regionali, ma che ha reso ancora più urgente la necessità, trascorsa l’epidemia, di mettere mano alla  riforma del Titolo V della Costituzione e alla distribuzione delle competenze fra Stato e regioni.  Lo scontro non ha, comunque, riguardato solo il governo e le amministrazioni regionali , ma anche il dibattito parlamentare. In questi mesi si è assistito  a un ostruzionismo ingiustificato da parte di alcune forze politiche dell’opposizione, che nel chiaro intento di portare acqua al loro mulino hanno più volte cambiato posizione, rendendosi un giorno disponibili a dialogare con il governo e un altro giorno criticandolo aspramente. Certamente il governo non ha brillato per compostezza ed efficienza, ma è anche vero che in un momento tragico come quello attuale ci si sarebbe aspettato tutt’altro atteggiamento  da parte dell’opposizione. Da tale linea di condotta si è, tuttavia, smarcata Forza Italia, avendo Berlusconi offerto al governo collaborazione in parlamento al fine di superare la grave crisi sanitaria in atto. Un’offerta che, però, sembrerebbe celare , malgrado la decisa smentita dei diretti interessati, un progetto più ampio della semplice cortesia istituzionale, circolando da tempo in Transatlantico voci relative a un possibile ingresso di Forza Italia nella maggioranza di governo. A prescindere  o meno dal verificarsi di un tale mutamento nella compagine governativa, a spiccare continua ad essere la deplorevole leggerezza con cui la classe politica italiana affronta la pandemia. Leggerezza che non fa che generare confusione e smarrimento, mettendo in risalto le tante discrepanze presenti nel nostro paese. Emblematico, a tal proposito, è stata la gestione commissariale della sanità in Calabria, dove negli ultimi giorni si sono succeduti ben tre diversi commissari poi dimessisi a causa dell’inettitudine a ricoprire l’incarico. Un ignobile balletto che risulta secondo solo al teatrino di una politica sempre più vittima di spinte schizofreniche, in cui ciò che si dice viene drasticamente smentito da quello che poi si fa concretamente. Ciò nonostante si continuano a celebrare stati generali, che nulla hanno vedere con quelli della Francia di Luigi XVI, ma che non fanno altro che accrescere la percezione dello stato confusionale di chi oggi ha responsabilità di governo. Confusione che i cittadini pagano in prima persona ogni giorno che passa.                                                                                                                                                                                                                                        Articolo di Gianmarco Pucci 

Bentornata America

Alle 17 ora italiana( le 11 negli Usa) della giornata di ieri è finalmente arrivata la notizia che molti nel mondo attendevano: Joe Biden sarà il 46° presidente degli Stati Uniti d’America. Determinante è stata l’assegnazione ai democratici della Pennsylvania, che con i suoi 20 grandi elettori ha permesso all’ex vicepresidente di raggiungere la maggioranza necessaria per essere eletto. La notizia della vittoria è stata salutata con giubilo nelle strade e nelle piazze di molte città americane. Cortei pacifici  hanno sfilato a Washington, New York, Los Angeles, Boston senza che si assistesse a eccezionali atti di violenza o disordini come previsto da alcuni commentatori fino a pochi giorni fa. Anzi l’atmosfera è stata descritta come quella di una grande festa, simile a quella del giorno dell’indipendenza. Festa che, tuttavia, si celebra sui resti di un paese spaccato a metà e che il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà necessariamente ricucire. Non a caso Biden, nel suo primo discorso da presidente eletto, ha parlato di un paese da guarire, da riunificare sotto un’ unica bandiera senza, quindi, alimentare più odio e divisioni come avvenuto in questi ultimi quattro anni. Il riferimento era senza ombra di dubbio rivolto all’attuale presidente Donald Trump, che sebbene sconfitto continua ostinatamente a negare la verità dei fatti, minacciando ricorsi e denunciando brogli. Un comportamento assai poco presidenziale che produrrà, quasi certamente, una grave crisi istituzionale, facendo scivolare la la più grande democrazia occidentale verso un terreno incognito, mai esplorato prima. Le norme costituzionali al riguardo poco dicono su un eventuale contestazione del voto , se non che l’ultima parola spetta alla Corte Suprema, la quale deve pronunciarsi entro l’8 Dicembre relativamente alla trasparenza del procedimento elettorale appena conclusosi. Corte Suprema che, nonostante sia allo stato attuale a maggioranza conservatrice, non è detto che si assuma l’onere di sovvertire l’esito del voto per compiacere il suo presidente. Al contrario la tendenza che si sta consolidando in queste ore, anche fra i repubblicani, è invece di segno opposto. Sono in molti, infatti, a chiedere a Trump, qualora insista a non voler ammettere la sconfitta, di consentire almeno una pacifica transizione del potere. Consigli che il presidente sta per il momento ignorando, malgrado la pressione fatta su di lui anche da importanti membri della sua stessa famiglia come la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner, accrescendo in tal senso il proprio isolamento e la propria frustrazione. Condizione immortalata nitidamente ieri, allorché mentre il mondo applaudiva il nuovo presidente degli Usa, Trump si ritrovava, da solo, a giocare a golf sui campi della Virginia. Come finirà l’aspra disputa su questo voto lo si scoprirà solo nelle prossime settimane,ma vi è una certezza: il prossimo 20 Gennaio Joe Biden entrerà ufficialmente in carica come presidente degli Stati Uniti e avrà gravose sfide da affrontare, alcune delle quali già da lui elencate nel discorso di ringraziamento. L’emergenza Covid 19, il cambiamento climatico, le tensioni razziali , la crisi economica e sociale generata dalla pandemia sono solo una parte del duro compito di guarigione dell’America che lo attende. Oltre a dover ricomporre la frattura con  quella parte di paese che non lo ha votato, Biden dovrà costantemente e proficuamente dialogare con un opposizione, che avendo mantenuto allo stato attuale il controllo di una parte del Congresso( vale a dire il Senato), rischia di rallentare molte di quelle riforme che la nuova amministrazione si appresta a varare. Suo compito sarà anche quello di ripristinare le relazioni internazionali con la Nato, con l’Europa e stemperare il clima di tensione da guerra fredda instauratosi con la Cina, accusata da Trump di aver portato il virus. Obiettivi d’importanza strategica non solo per gli Stati Uniti,ma anche per il resto del mondo. Per questo motivo, fiduciosi nel nuovo corso preso dagli Stati Uniti, non si può che benevolmente augurare buona fortuna al nuovo presidente. Bentornata America!                                                                                                                                                                   Articolo di Gianmarco Pucci 

La quiete e la tempesta

Quella di Martedì, parafrasando il titolo di una celebre trasmissione di Sergio Zavoli, è stata senz’altro la notte più lunga della Repubblica Usa. Per la prima volta dopo vent’anni gli Stati Uniti d’America si sono svegliati senza avere un presidente designato. L’ ultima volta in cui si concretizzò un simile scenario fu infatti nel 2000, allorché il repubblicano George W Bush vinse di misura sul candidato del partito democratico Al Gore. Oggi la storia sembra ripetersi, seppure con accenti e toni differenti. I due candidati alla presidenza sono stati considerati ,fino a ieri, sostanzialmente alla pari nel conteggio dei voti stato per stato. Poi, nella mattinata, le sorti hanno iniziato lentamente a capovolgersi a favore di Joe Biden, il quale ha conquistato due degli stati ritenuti decisivi per la vittoria ( ovvero Michigan e Wisconsin). Ora resta da attendere i risultati degli altri che, a causa dell’elevato numero di schede spedite per posta, comunicheranno i dati definitivi solo nei prossimi giorni. Una modalità questa aspramente criticata da Donald Trump per la sua presunta iniquità, ma che potrebbe risultare determinante, specie in stati in bilico come la Pennsylvania, nel decidere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Resta comunque certo che,allo stato attuale, Joe Biden è avanti sia nei voti popolari sia nel calcolo dei grandi elettori, sebbene con un margine di vantaggio inferiore rispetto a quanto riportato dai sondaggisti fino a pochi giorni fa( appena due punti percentuali). Al contrario Trump sembra sempre più sfavorito nella corsa alla presidenza, tanto che ha già minacciato di ricorrere alla Corte Suprema nel caso in cui i democratici gli dovessero “rubare” l’elezione. Per il Tycoon di New York sarebbe, infatti, in corso una vera frode perpretata dagli avversari per liberarsi di lui. Ha anche richiesto, per bocca del suo avvocato Rudolph Giuliani, di bloccare il conteggio dei voti negli stati più a rischio, all’evidente scopo di non dover ammettere la sconfitta elettorale. Dichiarazioni esplosive che apertamente stridono con le parole di cautela pronunciate al riguardo da Biden. Esso ha già annunciato, a tal riguardo, che non si proclamerà vincitore fino a quando non verranno contate tutte le schede elettorali, dimostrando una calma serafica che non si addice al suo sfidante. Al contrario esso diviene sempre più furente mano a mano che passano le ore e diminuiscono per lui le possibilità di ribaltare a suo favore l’esito elettorale. Ecco, perché con molte probabilità lo scontro potrebbe trasferirsi nelle prossime settimane dalle urne alle aule di giustizia, dando luogo a una crisi istituzionale senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. Un conflitto che, tuttavia, riflette le lacerazioni e le contraddizioni presenti nella società americana e a cui Donald Trump e Joe Biden hanno, loro malgrado, dato forma. Nelle loro parole, nei loro gesti si condensano due diverse visioni dell’America e del suo ruolo nel mondo. Da un lato c è un paese arrabbiato, depresso, rurale e razzista che ha evidentemente trovato in Trump il suo alfiere, il superuomo per dirla con le parole di Friedric Nietzsche, in grado di far ripartire l’economia a stelle e strisce, restituendogli la gloria di un tempo( e in questo senso il motto “rifaremo grande l’America” acquista veramente senso pregnante). Dall’altro lato c è un paese preoccupato per le violenze, per il virus,  e che aspira a riconciliarsi con la sua anima più profonda dopo anni più che mai turbolenti. In tale rigida polarizzazione verrebbe da dire che la quiete sta precedendo la tempesta, ma in realtà, a ragion veduta, sembra che in questo caso la prima e la seconda si siano equamente divise i ruoli loro assegnatole dalla sorte.                                                                                                                                                               Articolo di Gianmarco Pucci 

Erdogan, il Sultano

Ancora una volta la Francia si ritrova dover fare i conti in casa propria con un fondamentalismo islamico che sembra non darle tregua. Nella giornata di ieri, infatti, in coincidenza con il primo giorno di Lockdown, si è verificato l’ennesimo , sanguinoso attentato che ha visto per teatro la città di Nizza. L’attacco terroristico segue di poche settimane quello avvenuto alle porte di Parigi in cui a venire giustiziato è stato un professore di scuola superiore, colpevole di aver distribuito ai suoi studenti copie di un giornale contenente immagini satiriche del profeta Maometto. Il giornale in questione è stato ,inoltre, proprio in questi giorni preso duramente di mira da parte di molte nazioni musulmane, cha a quanto pare non sembrano gradire l’ironia francese sulle tematiche riguardanti il loro credo religioso. Uno di questi paesi è la Turchia, che a causa di queste vignette satiriche sembra pronta a dare inizio a una crisi politica e diplomatica con la Francia  dagli esiti imprevedibili. Secondo il presidente turco Erdogan, Macron e i politici europei, consentendo pubblicazioni immorali,  starebbero alimentando una spirale di odio verso l’islam prodromica a una nuova crociata. Un livore che ,sempre per Erdogan, sta divorando come un cancro il Vecchio Continente e che sarebbe il vero responsabile degli attacchi che hanno sconvolto la Francia nelle ultime ore. Il presidente turco ha poi preso le distanze dagli attentati, ribadendo che il suo paese non incoraggia la violenza e non ostacola il culto di nessuno. Tuttavia, se si guarda alle azioni intraprese da Ankara nell’ultimo periodo sorge più di un sospetto riguardo alla genuinità di queste dichiarazioni. Ad esempio, perché il 10 Luglio di quest’anno un suo decreto ha ordinato la riconversione della Basilica di Santa Sofia a Istanbul da museo cristiano a moschea, suscitando peraltro il disappunto anche del Vaticano? non è un caso, infatti, che proprio quella Basilica sia stata per secoli luogo di contesa fra cristiani e musulmani fino alla laicizzazione del sito per mano di Ataturk nel 1935. Sempre con riguardo alle legittime aspirazioni della Turchia non ci si può non accorgere che il regime di Ankara ha avviato, ormai da qualche anno, una macroscopica opera di espansione nel Mediterraneo che rischia di risvegliare dopo millenni un conflitto mai completamente sopito fra opposte civiltà. Lo si è visto in Libia, dove la Turchia è divenuta il vero arbitro del conflitto che contrappone il governo di Tripoli e l’esercito del generale Haftar stanziato a Tobrouk. Lo si vede nell’Egeo, sempre più minacciato da una guerra latente fra la Turchia e la Grecia ( che proprio per frenare le ambizioni di Ankara ha richiesto l’intervento conciliativo dell’Unione Europea). Nell’analizzare, pertanto, le mosse della Turchia di Erdogan sembra pressoché scontato affermare che esso stia tentando di ricostruire l’Impero Ottomano, favorendo la riunificazione di tutte le nazioni musulmane sotto un unico Sultanato. Un ruolo al quale la Turchia può senz’altro ambire, essendosi indebolito nel corso degli anni, anche per il venir meno dei suoi leader più carismatici, il potere dei gruppi jihadisti in Africa e in  Medio Oriente. Un progetto ambizioso, dunque, quello coltivato da Erdogan che non può lasciare noi Europei indifferenti. L’avanzata turca deve in tutti i modi essere arginata per evitare che  quelle che oggi possono sembrare semplici dispute territoriali possano  innescare una polveriera capace di frantumare i nostri diritti e  le nostre sicurezze. Certezze che vacillerebbero indubitabilmente se si saldasse un inquietante asse del male  fra Turchia, Russia e Cina, avente come obiettivo ultimo il controllo e la sottomissione egemonica dell’Europa. Ecco perché per scongiurare una simile iattura occorre da un lato preservare la nostra identità , ma dall’altro lato occorre approntare una nuova strategia che rilanci il ruolo internazionale del Continente. Solo così si potrà efficacemente rispondere alla sfida che il Sultano di Ankara ci ha lanciato.                                                                                                                                                           Articolo di Gianmarco Pucci 

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