L’ irrazionale

Siamo minacciati dall’irrazionalità. A dirlo è il Censis nel suo consueto rapporto annuale sulla situazione sociale del paese. Secondo l’istituto di ricerca, una fetta sempre più consistente di italiani è vittima di falsi miti e credenze. Pregiudizi figli dell’ignoranza che, come in un circolo vizioso, alimentano quell’ isteria di massa che da mesi ha scelto come bersaglio privilegiato il vaccino anticovid. Non stupisce, quindi, che proprio al vertice della classifica stilata dai ricercatori vi siano i seguaci del movimento No Vax e No Green Pass. Per il Censis, infatti, il 5,9% degli italiani crede che il virus non esiste. Di questi l’11% ritiene il vaccino un farmaco sperimentale, dannoso per la salute dell’uomo e messo in campo dal mercato al solo scopo di lucrare sui relativi profitti. Da qui la fuga verso la medicina alternativa, ritenuta più affidabile di quella ufficiale, e la scienza alchemica praticata da maghi e sedicenti stregoni. Lo scetticismo verso la scienza ha, inoltre, favorito il rifiorire di altre teorie metascientifiche. Come il Terrapiattismo, ovvero la bizzarra credenza secondo cui la Terra non sarebbe rotonda, come accertato da Copernico, ma piatta( ciò è tale per il 5,8%) . Oppure la leggenda metropolitana secondo cui l’uomo non è mai arrivato sulla Luna( 10,9%). Tale negazionismo storico-scientifico ha, inoltre, rafforzato le più strambe teorie complottiste. Fra cui quella di stretta attualità che vede nella tecnologia 5G un sofisticato strumento di controllo del pensiero( 19,9%) o quella che ritiene l’immigrazione fuori controllo parte di un grande progetto di “sostituzione etnica”, perpetrata dalle élite mondiali per motivi pressoché ignoti( 39%). Concetti che esprimono in pieno i paradossi della modernità e che fungono da corollario per le paure dell’uomo del Terzo Millennio. Come ha giustamente rilevato il Censis, la fuga verso l’irrazionalità non è da intendersi come una semplice distorsione dell’attuale paradigma socio-economico, ma come un vero e proprio rifiuto della razionalità positiva. Quella stessa razionalità che ha permesso all’uomo nei secoli passati di progredire sulla strada della crescita e del benessere, ma che oggi fatica a dare risposte ai problemi del mondo. Ciò è ancora più evidente se si tiene conto che, malgrado l’impetuosa crescita del Pil di quest’ anno, l’81% degli italiani guarda con maggiore sfiducia al futuro rispetto agli anni passati. Insoddisfazione che, invero, colpisce soprattutto i giovani, per i quali in molti casi l’impegno profuso nello studio e nel lavoro non si rivela idoneo ad assicurare loro un avvenire certo e sicuro. Da qui la rivalutazione critica del passato e la ricerca di rimedi che permettano di distogliere l’attenzione dai gravosi problemi della quotidianità. Verrebbe quasi da dire, parafrasando Karl Marx, che l’irrazionalità negativa si appresta a diventare l’oppio dei popoli, favorendo in tal senso la creazione di una società di alienati. Al contrario, sarebbe più opportuno coltivare l’irrazionalità positiva esaltata dai romantici. Quella cioè, che vedendo nel sogno la sintesi perfetta fra ragione e sentimento, non degenera nella superstizione, ma che eleva verso la conoscenza. Condizione questa che, per citare Kant, dovrebbe indurre l’uomo a usare la propria intelligenza, rifuggendo da streghe e alchimisti.

C’era una volta la Mala del Brenta

Dopo anni di silenzio la Mala del Brenta è tornata a far parlare di sé. Era, infatti, dai tempi dell’arresto di Felice Maniero, suo storico e carismatico capo, che la malavita veneta aveva smesso di fare notizia. Un silenzio che, tuttavia, ha favorito la progressiva riorganizzazione della banda ad opera di esponenti della fazione mestrina e che ha interrotto anni di apparente torpore. Essi, secondo gli inquirenti, al fine di riprendere il controllo del territorio e recuperare il prestigio perduto erano pronti a colpire di nuovo, vendicandosi in primo luogo dei  clan concorrenti e dei membri della banda divenuti collaboratori di giustizia. Fra questi proprio Maniero, il cui pentimento nel 1994 aveva messo prematuramente fine alla storia della mafia del Triveneto. Regione che vai, dunque, malavita che trovi. Se, infatti, il Mezzogiorno d’Italia vanta una lunga tradizione criminale, originatasi all’indomani dell’unificazione e perpetuatasi con il brigantaggio, nulla di diverso si è verificato in Settentrione. Al contrario, quella formatasi nel Nord-Est  costituisce ancora oggi un caso di mafia autoctona, diversa e al contempo complementare a quelle sviluppatesi nell’Italia meridionale. Essa, similmente a quanto fatto a Roma dalla Banda della Magliana, è riuscita nell’intento di unificare la frastagliata malavita locale, dando forma e organizzazione a una criminalità ancora prettamente rurale. Malavita che, tuttavia, si ritroverà a fare ben presto il salto di qualità, essendo proprio in quegli anni( siamo sul finire degli anni “70”) il Veneto, in particolare Venezia e Padova, meta di soggiorno obbligato per alcuni esponenti di spicco di Cosa Nostra. Uomini che forniranno alle giovani leve del crimine locale un modello da seguire, permettendo loro di approfittare del fiorente traffico di droga che proprio in laguna aveva iniziato a sostituire il tradizionale contrabbando di sigarette e di generi alimentari. Fu così, allora, che nel giro di pochi anni nacque la Mala del Brenta, una banda che seminando terrore e morte riuscì a estendere il proprio potere su tutta la Val Padana. In particolare il suo capo, Felice Maniero detto “Faccia d’angelo”, con la propria intraprendenza riuscirà a ritagliare per i criminali di Campolongo sul Brenta( comune di nascita di Maniero e luogo di ritrovo dei suoi sodali) un posto d’onore nell’Olimpo del crimine italiano. Dallo spaccio di droga alle rapine, dai sequestri agli omicidi fino ad arrivare alle estorsioni ai danni dei cambisti del Casinò di Venezia saranno tante le azioni delittuose partorite e messe in atto da Maniero. Tuttavia, le inchieste giudiziarie dei primi anni “90”, unitamente al crescere del fenomeno del pentitismo, contribuiranno al rapido declino del sodalizio criminale che proprio con Maniero inizia e finisce. Le sue rivelazioni ai magistrati, infatti, porteranno al repentino smantellamento della sua banda, attirandogli l’odio di coloro che proprio con lui avevano iniziato la loro scalata al crimine. Un rancore che si è conservato negli anni e che oggi, all’indomani dei 39 arresti eseguiti dal Ros e dalla Dda di Mestre, continua ad alimentare il mito di questo Crono della malavita veneta, tanto onnipotente quanto sfuggente a qualsivoglia giudizio obiettivo. Un mito,che al pari di quello del Dio greco, rischia di trasformare Maniero da carnefice in vittima del primo parricidio della storia della mafia italiana.

Quando bruciò New York

È passato alla storia come il giorno in cui tutti noi ricordiamo dove eravamo e ciò che stavamo facendo. Alle 14:45, ora italiana,di un tranquillo( si fa per dire) martedì di fine estate, la TV trasmette le immagini di New York in fiamme. Un attentato terroristico aveva colpito il cuore dell’Occidente democratico, abbattendo uno dei suoi simboli più importanti: le Twin Towers. L’attacco, dalla grande potenza visiva, fece il giro del mondo, scuotendo le coscienze e generando interrogativi, alcuni dei quali ancora senza risposta. L’unica certezza fu da subito che niente sarebbe stato più come prima. Il miraggio di una nuova età dell’oro, inaugurata dall’avvento di internet e della globalizzazione, veniva sconfessato dall’insorgere di una nuova minaccia. Un insidia che, come un castello di carte, dissolse la nostra fiducia di vivere in un mondo ordinato, sicuro e sereno. In tal senso, solo per citare Hobsbawm, se il Novecento è stato il secolo breve, quello attuale è sicuramente quello spietato. Così crudele che gli attentati dell’11 Settembre 2001, di cui oggi ricorre il ventennale, fanno da cornice privilegiata. Cionondimeno, i fatti di allora raccontano un mondo intriso di odio e rancore verso l’Occidente ovvero quello del fondamentalismo islamico. Un pericolo che fu a lungo sottovalutato, ma che già ben prima del 2001 diede importanti segnali. Dalla rivoluzione iraniana alla guerra in Kuwait, infatti, coloro i quali aspiravano a vedere nella polvere il “Grande Satana” americano non hanno fatto che aumentare di numero. In questo clima di tensione si è, dunque, alimentata la Jihad, la guerra santa contro i nuovi crociati provenienti da Ovest. Jihad che ha armato, da ultimo, la mano di Osama Bin Laden e che è stata all’origine della lotta al terrore scatenatasi dopo gli attentati di quel tragico martedì. L’ obiettivo ,tuttavia, non è stato ancora pienamente raggiunto. In tal senso, il recente ritiro dall’Afghanistan, ritenuto all’indomani dell’ 11 Settembre la culla del integralismo islamico, è emblematico di come il Medio Oriente( o almeno una parte di esso) non si sia fatto permeare in questi decenni dal concetto di “esportazione della democrazia”. Fu, infatti, per liberare gli oppressi che si decise di invadere l’Afganistan governato dai Talebani. Gli stessi estremisti che dopo vent’anni di occupazione statunitense hanno da poco ripreso il controllo del paese, vanificando quanto fatto dalla coalizione internazionale in questo lungo periodo. Fu sempre per lo stesso motivo che gli Usa attaccarono l’Iraq, deponendo Saddam Hussein, reo di conservare un arsenale di armi chimiche in grado di attentare all’incolumità della pace mondiale. Armi che non furono poi rinvenute e che hanno sollevato più di un dubbio sulla genuinità dell’intervento americano. Ciò specialmente in ragione degli eventi che ne sono seguiti, avendo la destituzione forzata di Saddam destabilizzato ancora di più il paese, che è ora sotto il controllo dell’Isis( Il cosiddetto nuovo Califfato). Ne deriva una conclusione assai logica quanto scontata. Seppur mossa da giuste pretese, la guerra al terrorismo mediorientale è stata un fallimento. Certamente con la morte di Bin Laden, ucciso in Pakistan dalle forze speciali Usa nel 2011, il terrorismo ha perso la forza degli inizi, ma non è ancora stato debellato. Difatti, il cancro che divora il mondo islamico è essenzialmente di natura culturale e solo con il progresso c’è speranza che possa essere estirpato. Perché ciò avvenga è necessario tempo ed è illusorio credere che esportando con le armi la democrazia si possano risolvere problemi antichi e, quindi, molto complessi. In questa ottica, la caduta delle Torri Gemelle assume un valore altamente simbolico. Essa è la materializzazione delle nostre paure, delle nostre preoccupazioni per l’avvenire. Come in un sogno trasceso troppo presto in incubo,innanzi a tanta violenza come occidentali ci siamo ritrovati smarriti, fragili e abbiamo cercato fuori di noi la risposta ai problemi della contemporaneità. In verità, non è al mondo islamico che dobbiamo guardare per capire il passato e immaginare il futuro, ma a noi stessi. Ad essere in crisi è la nostra società , sempre più minacciata da un inesorabile quanto inarrestabile declino.

La verità è fra le stelle

Ci avevamo creduto, ma in realtà ci eravamo semplicemente illusi. Malgrado i grandi progressi della scienza e della tecnica nell’ultimo quarto di secolo, per scoprire se siamo veramente soli nell’Universo dovremo attendere ancora a lungo. Infatti, nel documento consegnato dal Pentagono al Congresso Usa, narrante di oltre 140 casi di presunti avvistamenti di oggetti non identificati nei cieli americani, non si arriva a nessuna conclusione certa. Non si smentisce la possibile origine extraterrestre degli Ufo, ma al contempo non si esclude nemmeno di trovarsi innanzi a una gigantesca montatura. Il rapporto, la cui esistenza è stata svelata in anteprima dal New York Times nel 2021, aveva inevitabilmente riaccesso il dibattito nella società americana sull’ipotesi che ci fosse vita nell’Universo. Come avviene in questi casi, essendo molto sottile il confine fra scienza e fantascienza, si sono riproposte le tradizionali divisioni fra credenti ( o creduloni) e scettici. Solo che questa volta, in virtù delle dichiarazioni rilasciate da personalità al di sopra di ogni sospetto, per gli scienziati non era stato così facile infrangere le aspirazioni degli ufologi. A tal riguardo, ad alimentarne le speranze, ci aveva pensato finanche Barack Obama. L’ex Presidente aveva infatti dichiarato al Late Show che ci sono decine di casi di avvistamenti documentati che riguardano oggetti che per forma, velocità e moto di oscillazione non si comprende bene cosa siano. Parole che erano state riprese da John Ratcliffe, ex direttore dell’Intelligence Usa e capo della sicurezza del Dipartimento della Difesa, il quale aveva confermato la versione di Obama, favorendo il proliferare sul web di teorie e congetture. Secondo Ratcliffe sarebbero migliaia i fenomeni inspiegabili di questo tipo osservati nei cieli d’America. Ratcliffe ha, infine, confermato che i documenti fin qui desecretati sono solo una parte di quelli in possesso del governo americano. Documenti che, come rilevato da Nyt, sarebbero stati nel corso degli anni acquisiti da una apposita Task Force presidenziale, catalogati e archiviati in modo da occultarne l’esistenza al pubblico. Ciò ha inevitabilmente accresciuto la curiosità della gente e le speculazioni della comunità (pseudo) scientifica. Da Roswell in poi sono state innumerevoli le testimonianze di chi giura di avere assistito o addirittura di essere stato protagonista di incontri ravvicinati con extraterrestri. Racconti che hanno stuzzicato la fantasia di scrittori e registi e che hanno dato vita a un prolifico filone di opere di genere. Anche l’Italia, tuttavia, non è stata immune da episodi di questo tipo. Storicamente l’avvistamento ufologico più importante nel nostro Paese, dopo quello fittizio del cosiddetto “Ufo di Mussolini”, è stato quello del 1954. L’evento, che interessò buona parte dell’Europa sud occidentale, si osservò in Italia, soprattutto a Firenze e a Roma. A Firenze, durante  l’amichevole fra la Fiorentina e la Pistoiese, furono visti volteggiare sopra il Franchi centinaia di dischi volanti di forma sfericoidale. In quell’occasione gli alieni lasciarono anche concreta presenza del loro passaggio. Sulle strade di Firenze furono, casualmente, rinvenuti resti di una strana sostanza silicea di origine sconosciuta. Materia ritrovata giorni dopo a Roma, dove un ufo di grandi dimensioni fu osservato da decine di persone al crepuscolo del 19 Ottobre. In tale circostanza alcuni testimoni riferirono anche di presunti incontri con extraterrestri non giudicati, tuttavia, verosimili da parte delle autorità inquirenti. Eppure qualcosa di vero c’è sicuramente, non potendo liquidarsi l’intera faccenda come mera suggestione collettiva. Certamente, non sposando in pieno le tesi più fantasiose relative a rapimenti alieni ed omini verdi che escono dalle astronavi, si può tentare una mediazione fra fede e scienza, fra credere e non credere. Scientificamente è notizia ormai certa che a migliaia di anni luce da noi vi sarebbe una galassia, molto probabilmente abitata e con un sistema solare simile al nostro. La presenza poi di tracce di acqua su Marte e minerarie su Venere non hanno mai escluso pienamente la possibilità che in essi ci sia stata, anche miliardi di anni fa, qualche forma di vita. Ciononostante, queste evidenze scientifiche non confermano l’esistenza di vita aliena né necessariamente hanno attinenza con la vista degli Ufo. Come è stato coerentemente spiegato da esperti della NASA, quelli che vengono spacciati per velivoli extraterrestri potrebbero altro non essere che palloni sonda, meteorologici o non, che impiegano una tecnologia avanzata a scopi scientifici o militari. L’iperacusica, a tal riguardo, spiegherebbe tanti misteri e susciterebbe qualche preoccupazione di natura politica. In buona sostanza, si rientrebbe nella classica competizione fra superpotenze dove si gioca a guerre stellari, lasciando credere all’uomo comune che sia prossima la conquista della Terra da parte degli alieni. Uno scenario, dunque, simile a quello narrato nella Guerra dei Mondi di H.G. Wells e che ci lascia con una domanda fondamentale: è così assurdo credere che non siamo soli nel cosmo? Per avere la risposta basta guardare in cielo, fra le stelle.

Quel braccio della Magliana

Girovagando per Roma, nella zona che da Ponte Galeria si estende verso via Portuense, al centro del quadrante sud-ovest della capitale, ci si imbatte in un quartiere di recente urbanizzazione, ma che conserva ancora tracce del proprio passato rurale. Esso è attraversato da un ponte che, passando sopra al fiume omonimo, dà alla zona tanto il nome quanto la celebre fama. Una fama che ha scandito dalla seconda metà degli anni “70” la vita del quartiere della Magliana, conferendole l’immagine negativa di fucina del crimine romano. In verità, nonostante gli anni siano passati e la Banda della Magliana non faccia più notizia ( salvo sporadici episodi riportati dalla cronaca nera locale ), si continua a pensare alla zona in questi termini, come se il degrado e l’immoralità siano destinati a rimanere impressi per sempre in questo angolo di periferia. A onore del vero, per quel che riguarda la Banda della Magliana, essa fu un fenomeno che non rimase circoscritto alla zona di Pian due Torri ( nella Magliana Nuova), ma si estese ben presto ad altri quartieri. Obiettivo della Banda, infatti, fu fin dall’inizio quello di riunire la frastagliata e disarticolata realtà malavitosa romana sotto un unico simbolo, assoggettando le varie “paranze” alla stessa regia operativa. Un metodo che ricalcava quello fatto proprio  da Raffaele Cutolo a Napoli con la Nuova Camorra Organizzata e che a Roma aveva già avuto un illustre precedente: il Clan dei Marsigliesi. Questa banda, che agiva nella Roma dei  primi anni “70”, riuscì a imporsi rapidamente, conquistando l’egemonia sul fiorente traffico di droga della Capitale e sulle altre attività illecite ad esso connesse. Tuttavia, il declino dei Marsigliesi fu rapido quanto la loro ascesa e ciò favorì la nascita di quella che diventerà la prima ( e forse) unica vera mafia capitolina. Come riferito da Antonio Mancini, l’idea di unire le forze venne a Nicolino Selis, intimo amico di Cutolo, ma fu il sodalizio criminoso instauratosi fra Franco Giuseppucci, un buttafuori di una sala scommesse di Ostia, Enrico De Pedis, capo della banda del Testaccio, e Maurizio Abbatino, capo di una paranza di rapinatori della Magliana, a far decollare il progetto. Poco tempo dopo ci sarà il battesimo del fuoco della nuova banda, la quale metterà a segno il primo sequestro eccellente della sua storia. La sera del 7 Novembre 1977, infatti, nei pressi di via della Marcigliana, la Banda rapisce il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. I sequestratori chiedono alla famiglia un miliardo e mezzo di lire per liberare l’ostaggio. Il riscatto viene poi pagato, ma l’ostaggio resta comunque ucciso perché ha visto in faccia uno dei rapitori. Da qui in poi sarà un crescendo di azioni criminali che in breve tempo consegnerà Roma al potere del nuovo gruppo criminale, inaugurandone così  la leggenda. Una leggenda alimentata dai molti misteri sulla banda e dai rapporti fra essa e apparati deviati dello Stato. Contatti opachi che portarono Giuseppucci e la sua banda a intessere relazioni con la politica e l’alta finanza, senza trascurare le alleanze con le altre mafie presenti nel Mezzogiorno d’Italia e con la loggia massonica della P2. Sfortunatamente, complice la  prematura scomparsa di Giuseppucci “il Negro”, ucciso in uno scontro a fuoco a Trastevere, il 13 Settembre 1980, dal clan rivale dei Proietti, inizia il declino della banda e con essa restano avvolti nella nebbia molti segreti italiani. Dal caso Moro alla sparizione di Emanuela Orlandi sono innumerevoli i misteri di cui la Banda è stata custode e che non hanno ancora una risposta. Eppure, via della Magliana, anche dopo la decimazione della banda ad opera delle forze dell’ordine, ha continuato a far parlare di sé. Nel 1988 si verifica un nuovo fatto di sangue. L’autore è Pietro De Negri, titolare di un negozio per la pulizia dei cani ( da cui il soprannome delitto del “Canaro” dato dalla stampa al caso) con piccoli precedenti penali per furto e droga. Egli, il pomeriggio del 18 Febbraio, uccise un suo ex complice, il pugile dilettante Giancarlo Ricci, che da tempo lo ricattava al fine di estorcergli denaro per l’acquisto della droga. L’omicidio fu particolarmente cruento, perché De Negri attirò Ricci in una gabbia per il lavaggio degli animali dove lo torturò, lo mutilò e poi lo uccise, dando fuoco al cadavere. La scoperta dei resti avvenne l’indomani, in un terreno vicino adibito al pascolo. Una volta esclusa la pista del regolamento di conti fra spacciatori, le indagini si concentrarono su De Negri. Dopo tre giorni il delitto del “Canaro” aveva un colpevole, avendo De Negri confessato tutti gli addebiti, senza mostrare peraltro alcuna forma di pentimento. Con l’arrivo degli anni “90” la Magliana scivola nell’indifferenza generale. Le cronache locali, complice il progressivo degrado di Roma negli ultimi anni, smettono di dare risalto agli episodi  criminali della zona. Oggi, similmente ad altri quartieri, la Magliana vive sospesa in uno stato di quiete apparente, scandita solo dal pigro e placido scorrere del Tevere. Al contrario, sul racconto delle efferatezze compiute in passato si sono cimentati il cinema e la letteratura. Dal franchising di Romanzo Criminale( libro, film e serie tv) ai due film del 2018 sul delitto del “Canaro”( Dogman di Matteo Garrone e Rabbia furiosa di Sergio Stivaletti) sono molteplici le opere che vedono in via della Magliana un teatro narrativo privilegiato. Narrazione che è riuscita nell’intento di trasformare la cronaca in storia e la storia in mitologia suburbana. Miti di cui in certi casi si farebbe volentieri a meno.

Afrika connection

Si dice che ogni guerra è come un viaggio all’Inferno e che l’Africa è una scorciatoia per raggiungerlo. Le cronache, infatti, abbondano di tragedie che vedono nelle desolate e insidiose lande africane il proprio teatro privilegiato. Specialmente quando le vittime sono occidentali, che si trovano ad essere testimoni diretti del silente dramma patito dal Continente Nero. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, rimasto vittima, insieme al suo agente di scorta, il carabiniere Vittorio Iacovacci, di un crudele attentato in Congo, nella regione del Nord Kivu. Si ritiene che, come già accaduto in precedenza, l’agguato sia opera dei ribelli che operano nella regione e che rendono essa una delle zone più pericolose del pianeta. Una storia questa, che a distanza di due anni, non ha ancora conosciuto giustizia e che ha riacceso il dibattito sulla cosiddetta “Questione africana”. Si, perché il Congo non è l’unico Stato africano ad avere le strade lordate di sangue innocente. Ciò che è avvenuto a febbraio 2021 è la storia di tutti i giorni in Congo e in altre nazioni dell’Africa profonda. Una storia che dalla fine del colonialismo ha visto proliferare dittatori sanguinari, signori della guerra, terroristi e mercenari di ogni tipo. Criminali  che vedono  nella guerra un’indebita fonte di arricchimento, idonea ad affermare il proprio potere su popolazioni stremate da guerre, malattie e carestie. Piaghe purulente che affliggono l’Africa da decenni e di fronte alle quali l’Occidente ostenta una sostanziale indifferenza. Eppure esso, nonostante il colonialismo sia finito da un bel pezzo, è ancora lì, a gestire le sorti del continente per mezzo delle sue aziende e delle sue multinazionali. Aziende che negli ultimi cinquant’anni hanno fatto lauti guadagni, sfruttando a proprio vantaggio il dolore africano e finanziando chi questo scempio glielo ha inopinatamente permesso. È accaduto in Ruanda, dove  è stato dimostrato che l’eccidio dei Tutsi da parte degli Hutu è avvenuto grazie ad armi fornite dal Belgio e da altre nazioni europee. Un genocidio che,  peraltro, ha avuto notevoli ripercussioni sulla stabilità della regione e delle nazioni vicine ( fra cui proprio il Congo). Idem è accaduto in Sierra Leone, dove la decennale guerra civile è stata finanziata dal traffico sia delle armi sia dei diamanti con i paesi occidentali. Risorsa quest’ultima di cui il paese è straordinariamente ricco e che è stata al centro del dibattito internazionale riguardo alla necessità di bloccarne il contrabbando ( risoluzione 1306/2000 dell’ONU). Stesso scenario si è, ancora,  ripetuto nel 1992, in Somalia, quando in seguito alla cacciata di Siad Barre il paese è sprofondato nella guerra civile ed è stato necessario l’intervento delle Nazioni Unite per riportare la normalità ( operazione “Restore Hope”). Somalia che, anche dopo la fine del colonialismo italiano e  l’instaurazione del regime di Barre, ha mantenuto comunque saldi rapporti economici e commerciali con l’Italia. Interessi che hanno continuato a persistere con la fine della dittatura e che hanno favorito il contrabbando delle armi e dei rifiuti tossici nel Paese. Un caso questo che è stato al centro di inchieste prima giornalistiche e poi giudiziarie. Emblematica, in tal senso, è stata la vicenda dell’uccisione di Ilaria Alpi, giornalista del Tg3, e del suo cameraman, Miran Hrovatin. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, Ilaria Alpi, che era giunta in Somalia per documentare lo svolgimento della missione di pace, si era imbattuta nei traffici illeciti con l’Italia. Una circostanza questa, lo si scoprirà solo in seguito, appresa dalla  giornalista per mezzo di un funzionario del Sismi, Vincenzo Li Causi, in missione in Somalia per conto della Nato. La notizia, invero, era già nota alla Cia e al Pentagono. Non a caso, infatti, gli Stati Uniti si opposero fermamente alla partecipazione dell’Italia alla missione, in virtù dei rapporti opachi intrattenuti fin dalla fine degli anni “80” fra il governo italiano e quello Somalo. Sfortunatamente Alpi e Hrovatin non faranno in tempo a comunicare quanto da loro appreso, perché verranno assasinati in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, il pomeriggio del 20 Marzo 1994. Da quel giorno numerosissimi sono stati i depistaggi e i tentativi di impedire l’emergere della verità. Una verità scomoda che, leggendo le carte processuali, avrebbe quasi sicuramente scoperchiato il “vaso di Pandora” dell’affare Somalia, provocando un autentico terremoto. Terremoto evitato dalla morte dell’ inviata del Tg3, ma che ha posto comunque in rilevo interessanti connessioni. Come quella relativa al coinvolgimento nell’omicidio dei nostri servizi segreti.  A tal proposito, a venire in rilievo è la figura del maresciallo Vincenzo Li Causi, informatore di Ilaria Alpi e figura chiave dell’inchiesta. Costui, morto nel Novembre 1993 in seguito dell’operazione Ibis II, era un agente segreto del Sismi ed esponente di spicco dell’organizzazione Gladio. Gladio, che come tanti altri misteri italiani del secondo dopoguerra, ha avuto un ruolo non trascurabile anche in questa vicenda. Con molte probabilità, infatti, Gladio ebbe parte attiva nel coprire le attività italiane nell’ex colonia africana. Compito che l’organizzazione ha svolto fino al 1991 e che collega l’omicidio di ilaria Alpi a un altro omicidio ad esso di poco antecedente: quello di via Poma. A tal riguardo, un’ipotesi non proprio peregrina sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, adombra significativi dubbi sulla società per cui la ragazza lavorava come segretaria. Secondo tale teoria, l’A.I.A.G. altro non era che una fittizia agenzia turistica che copriva l’attività dei servizi all’estero( fra cui le attività in Somalia di Gladio). Una circostanza questa che non è mai stata approfondita e che, a distanza di trent’anni, non ha visto nessuna condanna per il delitto in questione, ma solo altri depistaggi. Depistaggi che, a giusto titolo, hanno meritato all’Italia il titolo di terra dei segreti e delle cospirazioni.

Una terra senza pace

Giovedì scorso, davanti alla sede della Camera, si è svolta la manifestazione organizzata dai sindaci calabresi contro il commissariamento della sanità regionale. L’evento, che ha riunito a Roma i rappresentanti dei comuni capoluogo di provincia e di altre municipalità importanti della regione, ha avuto come obiettivo quello di chiedere un intervento urgente del governo per superare lo stato di incertezza determinatosi in Calabria nelle ultime settimane. In particolare, i sindaci hanno chiesto al Presidente Conte di rimuovere la zona rossa in Calabria e di nominare un commissario idoneo ad affrontare l’emergenza sanitaria in atto. Ruolo questo che pare nessuno possa (o voglia) assumere e che ha dato luogo a un imbarazzante siparietto di nomine, subito  rimesse per i motivi più surreali e grotteschi. Episodi che hanno aggravato il quadro già precario di una regione con un sistema sanitario commissariato da più  di dieci anni a causa dei tagli e dei debiti accumulati dalle aziende ospedaliere. Una situazione drammatica che, tuttavia, solo la concomitanza di alcuni fattori inediti come l’emergenza sanitaria da Coronavirus e lo scioglimento anticipato della giunta regionale (dovuto alla morte del governatore Jole Santelli lo scorso Ottobre) ha fatto emergere in tutta la sua tragica dirompenza. Del resto, che la situazione sia grave e che avrà rilevanti ripercussioni sulla gestione del territorio lo si evince anche dalle parole pronunciate dai sindaci nel corso della manifestazione, parole che suonano come un disperato grido di aiuto in favore di una terra che sembra non trovare proprio pace. Per il Sindaco di Aiello Calabro e Presidente della Provincia di Cosenza, Francesco Antonio Iacucci, ad esempio “il governo ha dimostrato in questi mesi di avere a cuore la Calabria, sebbene riguardo alla sanità l’aspirazione degli amministratori è di tornare (dopo questo necessario periodo commissariale) a una gestione autonoma della sanità regionale, privilegiando gli investimenti pubblici nelle strutture ospedaliere a discapito dei tagli lineari fin qui attuati”. Sulla stessa linea si attesta il Sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, il quale ribadisce ” il no a un commissariamento che non sia a tempo, essendo compito specifico della prossima giunta regionale quello di migliorare la sanità e garantire il diritto alla salute per tutti i cittadini calabresi”. Abramo ha poi evidenziato come ” la cattiva gestione della sanità sia da imputare a nomine che negli ultimi anni hanno favorito gli amici degli amici e non  il merito e la competenza, fattori presenti in Calabria ma non giustamente valorizzati”. Concetto espresso, seppur con parole diverse, anche dal Sindaco di Vibo Valentia, Maria Limardo, la quale ha sottolineato come con il commissariamento della sanità “la Calabria sia stata letteralmente espropriata del suo diritto all’autodeterminazione. Un buco di democrazia al quale è necessario rispondere, rivendicando il pieno diritto della regione all’autonomia e premiando la professionalità, la sobrietà dei medici e degli  amministratori”. I sindaci hanno poi preso le distanze, dichiarando la propria fiducia nella magistratura, da quanto accaduto a Catanzaro nelle ore precedenti alla manifestazione, dove si è verificato l’arresto del Presidente del Consiglio Regionale, Domenico Tallini. Una vicenda, che al di là o meno del suo buon esito, ha danneggiato ulteriormente l’immagine della Calabria. Domenico Tallini, infatti,  si trova agli arresti domiciliari ed è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e voto di scambio per aver favorito il clan crotonese dei Grande Aracri nell’ambito dell’inchiesta “Farma business”. Secondo la ricostruzione dei magistrati , Tallini, che era oggetto di indagine già dal 2014, da quando cioè era stato inserito nella lista dei cosiddetti “politici impresentabili”, avrebbe avuto un ruolo centrale nel sodalizio criminale instauratosi con il clan di Cutro. Suo sarebbe stato il compito di mantenere i rapporti fra istituzioni, massoneria deviata e criminalità organizzata per garantire i traffici illeciti della mafia. Egli, inoltre, avrebbe favorito, abusando della propria posizione, la sottrazione dei farmaci destinati ai malati terminali, alterando la rete di distribuzione e incrementando  così  il mercato nero dei medicinali. Proprio la gravità di queste accuse  ha contribuito a svelare le tante negligenze, le tante criticità di una terra sempre più abbandonata a se stessa, defraudata da chi avrebbe avuto il dovere di governarla con rispetto e amore. Un degrado ampiamente documentato dai servizi dei tg nazionali in questi giorni e che ha mostrato al mondo i tanti ospedali e presidi medici lasciati nell’incuria, strutture che non hanno mai aperto i battenti e che di fronte all’aumento dei contagi da Coronavirus avrebbero potuto funzionare ottimamente come reparti anticovid. Uno scempio perpetuato per anni, per decenni  e che ha investito tutti i settori di intervento della cosa pubblica. Lo si sta vedendo anche adesso con il nubifragio che ha colpito la provincia di Crotone, un fulgido esempio di pessimo governo del territorio che ci si aspetterebbe di non vedere replicato mai più, in Calabria come altrove. Il ritratto che emerge è desolante, quasi denigratorio nei confronti di quei tanti calabresi che hanno lasciato la loro terra d’origine per rendere grande il nostro paese. Ed è proprio a questi che le istituzioni dovrebbero rivolgersi affinché le cose cambino. Lo ha detto anche il Procuratore di Catanzaro Gratteri in questi giorni : per sconfiggere il duplice virus della malattia e della corruzione bisogna attingere alle energie migliori della terra calabrese, risorse che esistono ma che si trovano al di fuori di losche congreghe affaristiche. Solo così la Calabria avrà qualche speranza di rinascere, evitando di crollare in pezzi al minimo accenno di temporale (sanitario o meteorologico che sia).                                                                                                                                       Articolo di Gianmarco Pucci 

Due mondi molto vicini

Venerdì 16 Ottobre, la FAO, organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha festeggiato, nella sua sede di Roma, 75 anni di attività. La cerimonia, coincisa quest’anno  con la giornata mondiale dell’alimentazione, si è svolta in videoconferenza  a causa dell’emergenza Covid e ha visto la partecipazione di personalità di spicco delle istituzioni e del mondo dell’associazionismo. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per l’occasione ha inviato un videomessaggio in cui ha ricordato come quello che stiamo vivendo è un momento di scelte decisive per l’intero pianeta, laddove senza un serio impegno globale basato sul rispetto dell’attività agricola e l’uso responsabile delle risorse naturali non sarà possibile assicurare un sistema alimentare sostenibile nel prossimo futuro. Il capo dello Stato ha poi puntualizzato che senza un rafforzamento della cooperazione fra le nazioni, che coinvolga attori sia pubblici che privati, non si potrà efficacemente contrastare i problemi globali connessi allo sviluppo agricolo. Di qui l’auspicio di Mattarella affinché la Comunità Internazionale riscopra il senso profondo dei beni preziosi che la terra ci offre al fine di condividerli e custodirli per le future generazioni. L’appello del Presidente della Repubblica ha fatto da contraltare al duro monito del Papa, il quale ha denunciato come la distribuzione diseguale  dei frutti della terra sia non solo una tragedia, ma una vera vergogna. Secondo il Santo Padre essa sarebbe dovuta ai pochi investimenti effettuati nell’agricoltura, alle conseguenze dei cambiamenti climatici e ai conflitti presenti in molte aree del globo che bruciano ogni anno tonnellate di generi alimentari. Proprio questi ultimi due fattori, secondo gli ultimi rapporti diffusi dalle agenzie ONU, sarebbero fra le principali cause dell’aumento della fame nel mondo nell’ultimo triennio ( 821 milioni di persone ovvero un abitante su nove dell’intero pianeta). Le oscillazioni climatiche stanno, infatti, influenzando l’andamento delle piogge e delle stagioni agricole, dando anche luogo a fenomeni meteorologici estremi come siccità e alluvioni che danneggiano gravemente la produzione. Questi fenomeni sono poi alla base  della crescente piaga della denutrizione in molte zone del mondo, specialmente in quelle aree dove l’economia è ancora legata a sistemi agricoli tradizionali. Tuttavia, questo fenomeno che riguarda principalmente Sud America e Africa( e in misura minore l’Asia) rischia di non risparmiare nemmeno noi che viviamo nell’emisfero nord, poiché l’aumento sproporzionato delle temperature, alterando il grado di acidità delle piogge, arrecherà danni irreparabili alle culture di sussistenza come grano, riso e mais. Se si aggiunge poi che i danni all’ agricoltura contribuiranno a ridurre la disponibilità di cibo, favorendo un aumento indiscriminato dei prezzi dei beni alimentari e la creazione di oligopoli sul mercato, si comprende perché Papa Francesco ha affermato che quello della fame è una vergogna mondiale. Tuttavia, quando si parla di malnutrizione non si deve credere che ciò riguardi solo la denutrizione, essendo in crescente aumento, in molte aree del Nord America e dell’Europa Settentrionale, l’opposto fenomeno dell’obesità. Anche in questo caso  il prezzo elevato dei generi alimentari, dovuto a un difetto evidente nella catena di distribuzione delle risorse, che premia sul mercato  i grandi produttori a discapito di quelli piccoli, non permette a molta gente di accedere a un cibo per loro più salutare. Risulta, allora, evidente come si sia in presenza di un problema unitario, che a seconda delle condizioni assume una veste diversa, avvicinando due mondi lontani ma al contempo molto vicini. Un problema che pare, in definitiva, trovare il proprio comune denominatore  nell’aumento della povertà, nella diminuzione del redito medio pro capite e nella perdita del potere d’acquisto delle valute nazionali.  Non a caso, proprio la FAO ha segnalato come ormai da anni casi di obesità e denutrizione si verifichino indifferentemente tanto nei paesi ricchi che in quelli più poveri della Terra. Una chiara prova, dunque, della globalità del problema  e che come tale non può essere più ignorato da nessuno. Specialmente se si pensa che con il passaggio della Pandemia da Covid 19, la quale ha ingrossato le fila dei nuovi poveri, queste discrepanze saranno destinate a crescere. Sempre più persone, difatti, stando ai dati forniti dalla Caritas, rimaste  senza  lavoro  si affollano davanti alle mense sociali , elemosinando quel cibo che in tanti ancora sprecano. Occorre, dunque, un cambiamento radicale delle politiche alimentari che consenta l’accesso a un cibo sicuro e di qualità per tutti, privilegiando quelle filiere più sensibili a questi valori nutrizionali. Un sistema che favorendo l’agricoltura di piccola scala anziché quella intensiva praticata dalle grandi multinazionali dell’agroalimentare, rimetta al centro i diritti umani e la salvaguardia dell’ambiente. A onore  del vero sembra, comunque, che nella Comunità Internazionale  sia cresciuta la consapevolezza verso questo problema. Ne è una prova il conferimento del premio Nobel per la pace 2020 al programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite finanziato proprio dalla FAO. Un importante riconoscimento che non manca di evidenziare come senza cibo sufficiente per tutti non vi può essere prosperità e senza prosperità non vi può essere nemmeno la pace nel mondo.                                                                                               Articolo di Gianmarco Pucci 

Prove di sano sovranismo europeo

Sembra  ormai chiaro a tutti che il nuovo “Eldorado” dell’era digitale è rappresentato dalla “Data Economy”. Con ogni probabilità, infatti, tutto l’oro e il petrolio presenti attualmente sulla Terra non hanno il valore dei dati. Tuttavia, oro e petrolio presentano un valore correlato all’attività di ricerca, di trasformazione e trasporto che tali materie prime hanno alle loro spalle. I dati ,invece , sono messi gratuitamente ( e molto poco consapevolmente) a disposizione da noi utenti di smartphone, computer e altri “smart devices” che consideriamo, ingenuamente , essere al servizio della sola nostra utilità personale. In questo nuovo mercato 2.0 , una fetta molto appetibile è costituita dal settore del “cloud computing”. Basti pensare che il suo valore a livello globale è passato dai 242,7 miliardi di euro del 2016 ai 364,1 del 2019. Ma in questo settore i problemi non sono solo di carattere etico o legati all’ambito della privacy di ogni cittadino. Si tratta, a ben vedere, di una vera questione di interesse geopolitico, dal momento che la nuvola dei servizi risulta attualmente egemonizzata dagli Stati Uniti d’America, mentre si stima che la quantità dei dati industriali europei gestite da piattaforme cloud nei prossimi cinque anni quadruplicherà, rendendo evidente la necessità di gestire i servizi e i dati strategici a livello intercontinentale. Se si tiene conto poi del fatto che recenti previsioni economiche stimano che nel 2025 l’economia dei dati europei varrà poco più di 800 miliardi di euro, sorge spontanea una domanda: ” perché spedire tale tesoro oltreoceano?” Fortunatamente qui da noi, nel vecchio continente qualcosa si sta muovendo. Germania e Francia, infatti, sono le principali promotrici del progetto “Gaia X”. Si tratta di un’ associazione internazionale senza scopo di lucro, presentata al pubblico il 4 Giugno 2020, alla quale contribuiscono numerose aziende operanti nel settore, con lo scopo di garantire all’Europa una maggiore autonomia dai colossi della Sylicon Valley relativamente alla conservazione e la gestione dei propri dati in cloud. L’obiettivo è quello di costruire una piattaforma sicura in cui aziende, europee e non, possano operare fornendo servizi che rispettino regole e standard europei. I colossi High tech americani hanno già reagito, sferrando le prime contromosse. Ad esempio, il Ceo di Google Cloud, Thomas Kurian, ha rassicurato le istituzioni europee, affermando che il suo team sta già lavorando per offrire, attraverso la nuvola di Google, strumenti per gestire la sovranità dei dati. La partita del primo tentativo di sovranismo digitale europeo è ambiziosa e dai risultati estremamente incerti, ma la posta in gioco in termini economici e di sicurezza interna è fondamentale.                                                                                                                                                                                                                   Articolo di Manuel Galardo

Fratello uomo

Ieri, 4 Ottobre 2020, nel giorno dedicato alla celebrazione della figura di San Francesco d’Assisi, innanzi alla comunità francescana riunitasi  nel piccolo centro dell’ Umbria, Papa Francesco ha firmato la sua ultima Enciclica dal titolo quanto mai evocativo: “Fratelli tutti”. Nella sua Enciclica, il Pontefice richiama, oltre che importanti passi del Vangelo, soprattutto gli insegnamenti del Santo “poverello”, che fece dell’umiltà e della misericordia verso gli ultimi il tratto distintivo della sua predicazione. Proprio questi vengono rielaborati da Papa Francesco alla luce degli avvenimenti presenti  che hanno sconvolto la vita di tutti noi( in primis la Pandemia da Covid 19). La lettera, dall’ inequivocabile sapore francescano, si sofferma poi sulle principali problematiche di un mondo che sembra sempre di più cadere vittima del demone dell’autodistruzione. Questa tentazione nichilista, che nel nostro tempo prende le forme dell’intolleranza e della violenza cieca , si erge con protervia a contrastare la fratellanza fra gli uomini, negando l’importanza del dialogo fra le genti.  Si comprende, allora, perchè Papa Francesco, non mancando di esaltare la figura del santo di Assisi , che nel suo testimoniare la  fede mai ha fatto ricorso all’invettiva  dialettica, preferendo, al contrario,  la comunicazione gentile della parola di Dio, ha deciso di porre al centro del suo messaggio ai cattolici proprio la fratellanza fra gli uomini. Il Pontefice si è poi soffermato sul rapporto fra fede e politica, impiegando la metafora del Buon Samaritano che aiuta lo sconosciuto, il diverso per puro spirito caritatevole. Principio questo che dovrebbe, a detta di Francesco, guidare tutti i cristiani che rivestono funzioni di governo. Un chiarissimo invito, dunque, affinchè la politica  si prodighi, con abnegazione e spirito di servizio, per costruire una società  migliore. Infatti, per guarire un mondo iperglobalizzato come quello attuale servono risposte altrettanto universali, altrimenti non  vi potrà essere nessuna autentica innovazione. Tale cambiamento, se ci sarà,  non potrà che avvenire nel segno di una ritrovata concordia fra le persone, senza, quindi, alimentare odio e divisioni. A tal proposito il Santo Padre ha biasimato quelle ideologie, ribattezzate come populiste, che immaginando un mondo di muri e non di ponti di pace, finiscono per magnificare il materialismo del profitto e ignorare il tema della dignità umana. Ecco perché  la secca presa di posizione del Santo Padre contro il populismo  non può che essere vista, perlomeno a parere di chi scrive, come una autentica scomunica, nei fatti, di tutti coloro che falsamente si dicono cristiani, ma che in realtà usano la fede per seminare zizzania( che è poi la farina del Demonio e va sempre in crusca). Sempre alla politica spetta il fondamentale compito di lottare la povertà , colmando le disuguaglianze prodotte dalla società dei consumi e tutelando, soprattutto, il lavoro. Al riguardo, il  Papa ha elogiato i movimenti popolari impegnati nel sociale, auspicando un loro coordinamento unitario che spinga i cattolici verso un maggiore attivismo politico. l’ Enciclica ha poi posto l’accento sulle  istituzioni internazionali preposte alla tutela dei diritti umani e della pace globale come l’Onu. Il Papa ha ,infatti, sollecitato una riforma delle Nazioni Unite, chiedendo di dare maggiore peso alle deliberazioni di essa, poiché  solo la collaborazione amichevole fra le nazioni può risolvere i gravi problemi del pianeta come  la guerra e la fame. Relativamente alla prima Papa Francesco si è speso per chiedere una drastica riduzione delle armi nucleari e di quelle chimiche, le quali provocano più vittime fra civili innocenti che fra gli eserciti impegnati in operazioni militari. Per la seconda, invece, ha insistito sulla necessità di debellare la piaga della fame nel mondo, che uccide ogni anno milioni di persone, specialmente bambini, aggiornando i programmi umanitari esistenti per l’Africa e l’Asia. Infine, è tornato a condannare la pena di morte, chiedendone l’abolizione in tutto il mondo, perché in radicale antitesi con il messaggio evangelico che indica all’uomo la via del perdono e non della vendetta per ottenere giustizia. A conclusione della sua lettera, Papa Bergoglio si è poi soffermato sulle sofferenze patite dai cristiani perseguitati, ancora oggi, in molte parti del globo. In risposta a tale problema,  il Santo Padre ha elogiato quanti, in tutti i tempi della storia, si sono adoperati per la libertà religiosa, sacrificando la propria vita. L’Enciclica ha proprio menzionato figure importanti del secolo scorso come Martin Luther King e il Mahatma Gandhi, quali esempi di virtù cristiane. In definitiva, a prescindere dal credo di ognuno, le parole del Pontefice, toccando temi di drammatica attualità, non possono che essere condivise e ci lasciano un briciolo di speranza per l’avvenire. Francesco d’Assisi, infatti, nel suo insegnamento liturgico di amore verso il prossimo, ci ha trasmesso proprio l’importanza del valore della fraternità fra le persone, senza alcuna distinzione per fede o per razza. L’importanza del dialogo fra opposte visioni va, perciò, oggi riaffermato con più forza, prima che  contro il Coronavirus, contro un virus ancora più subdolo: quello dell’ indifferenza.                                                                                                                                 Articolo di Gianmarco Pucci

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