Quando bruciò New York

È passato alla storia come il giorno in cui tutti noi ricordiamo dove eravamo e ciò che stavamo facendo. Alle 14:45, ora italiana,di un tranquillo( si fa per dire) martedì di fine estate, la TV trasmette le immagini di New York in fiamme. Un attentato terroristico aveva colpito il cuore dell’Occidente democratico, abbattendo uno dei suoi simboli più importanti: le Twin Towers. L’attacco, dalla grande potenza visiva, fece il giro del mondo, scuotendo le coscienze e generando interrogativi, alcuni dei quali ancora senza risposta. L’unica certezza fu da subito che niente sarebbe stato più come prima. Il miraggio di una nuova età dell’oro, inaugurata dall’avvento di internet e della globalizzazione, veniva sconfessato dall’insorgere di una nuova minaccia. Un insidia che, come un castello di carte, dissolse la nostra fiducia di vivere in un mondo ordinato, sicuro e sereno. In tal senso, solo per citare Hobsbawm, se il Novecento è stato il secolo breve, quello attuale è sicuramente quello spietato. Così crudele che gli attentati dell’11 Settembre 2001, di cui oggi ricorre il ventennale, fanno da cornice privilegiata. Cionondimeno, i fatti di allora raccontano un mondo intriso di odio e rancore verso l’Occidente ovvero quello del fondamentalismo islamico. Un pericolo che fu a lungo sottovalutato, ma che già ben prima del 2001 diede importanti segnali. Dalla rivoluzione iraniana alla guerra in Kuwait, infatti, coloro i quali aspiravano a vedere nella polvere il “Grande Satana” americano non hanno fatto che aumentare di numero. In questo clima di tensione si è, dunque, alimentata la Jihad, la guerra santa contro i nuovi crociati provenienti da Ovest. Jihad che ha armato, da ultimo, la mano di Osama Bin Laden e che è stata all’origine della lotta al terrore scatenatasi dopo gli attentati di quel tragico martedì. L’ obiettivo ,tuttavia, non è stato ancora pienamente raggiunto. In tal senso, il recente ritiro dall’Afghanistan, ritenuto all’indomani dell’ 11 Settembre la culla del integralismo islamico, è emblematico di come il Medio Oriente( o almeno una parte di esso) non si sia fatto permeare in questi decenni dal concetto di “esportazione della democrazia”. Fu, infatti, per liberare gli oppressi che si decise di invadere l’Afganistan governato dai Talebani. Gli stessi estremisti che dopo vent’anni di occupazione statunitense hanno da poco ripreso il controllo del paese, vanificando quanto fatto dalla coalizione internazionale in questo lungo periodo. Fu sempre per lo stesso motivo che gli Usa attaccarono l’Iraq, deponendo Saddam Hussein, reo di conservare un arsenale di armi chimiche in grado di attentare all’incolumità della pace mondiale. Armi che non furono poi rinvenute e che hanno sollevato più di un dubbio sulla genuinità dell’intervento americano. Ciò specialmente in ragione degli eventi che ne sono seguiti, avendo la destituzione forzata di Saddam destabilizzato ancora di più il paese, che è ora sotto il controllo dell’Isis( Il cosiddetto nuovo Califfato). Ne deriva una conclusione assai logica quanto scontata. Seppur mossa da giuste pretese, la guerra al terrorismo mediorientale è stata un fallimento. Certamente con la morte di Bin Laden, ucciso in Pakistan dalle forze speciali Usa nel 2011, il terrorismo ha perso la forza degli inizi, ma non è ancora stato debellato. Difatti, il cancro che divora il mondo islamico è essenzialmente di natura culturale e solo con il progresso c’è speranza che possa essere estirpato. Perché ciò avvenga è necessario tempo ed è illusorio credere che esportando con le armi la democrazia si possano risolvere problemi antichi e, quindi, molto complessi. In questa ottica, la caduta delle Torri Gemelle assume un valore altamente simbolico. Essa è la materializzazione delle nostre paure, delle nostre preoccupazioni per l’avvenire. Come in un sogno trasceso troppo presto in incubo,innanzi a tanta violenza come occidentali ci siamo ritrovati smarriti, fragili e abbiamo cercato fuori di noi la risposta ai problemi della contemporaneità. In verità, non è al mondo islamico che dobbiamo guardare per capire il passato e immaginare il futuro, ma a noi stessi. Ad essere in crisi è la nostra società , sempre più minacciata da un inesorabile quanto inarrestabile declino.

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