“Questo gran silenzio quasi fa rumore, mentre fuori domina la notte..” così cantava Adriano Celentano in un suo famoso album del 2007, ribattezzato propriamente “La situazione di mia sorella non è buona”. Un titolo, a giusta ragione, profetico, visto che la condizione di nostra sorella ( la Terra) non è affatto delle migliori. La guerra, infatti, è tornata a minacciare la pacifica esistenza dell’uomo sul pianeta, spazzando via le sue certezze di vivere in un mondo sicuro e governato da leggi sacre e inviolabili. A partire dal 24 febbraio 2022, abbiamo sperimentato in prima persona la fragilità di tali convinzioni e al contempo scoperto una nuova normalità. In breve, la Terza Guerra Mondiale a pezzi, tanto evocata da Papa Francesco, si è manifestata nitidamente ai nostri occhi, costringendoci a rivedere paradigmi che credevamo ormai consolidati. Come se non fosse già bastata la Pandemia, il proliferare dei conflitti nel globo sono arrivati puntualmente a destabilizzare il già precario equilibrio mondiale. Invero, unitamente alla perdurante crisi climatica e all’inesorabile avvento dell’Intelligenza artificiale, sono molteplici le minacce alla pace nei tempi bui che stiamo vivendo. In tal senso, il 2024 non poteva iniziare sotto più nefasti auspici. Dopo i tragici fatti di Gaza dello scorso 7 ottobre, un nuovo fronte bellico rischia di aprirsi nel Mar Rosso. Solo poco tempo fa, i ribelli Houthi, che dal 2015 controllano gran parte dello Yemen, hanno attaccato ripetutamente i mercantili statunitensi in transito nel Golfo di Aden. I “Partigiani di Dio” hanno rivendicato gli attentati, promettendo nuove ritorsioni contro coloro che sostengono Israele nella lotta ad Hamas. Hanno, inoltre, ribadito che risponderanno prontamente alle aggressioni di Usa e Regno Unito, rei di aver pesantemente bombardato le basi dei ribelli in questi giorni. Invero, iniziative in tal proposito sono attese anche dall’Ue. Giusto ieri si è riunito il Consiglio europeo che, sotto la direzione dell’Alto Rappresentante Borrell, ha deciso, in accordo con Francia, Germania e Italia, di varare una missione navale per difendere i traffici marittimi fra l’Asia e il Vecchio Continente. Nessun paese, d’altronde, può dirsi al sicuro dalla minaccia proveniente dalle coste yemenite. Essa descrive chiaramente il presagio peggiore dall’inizio del conflitto in Medio Oriente. Ovvero, quello di un allargamento della guerra ad altre realtà regionali percorse dal fondamentalismo islamico. Oltre agli Houthi, rivoluzionari sciiti sostenuti e finanziati dall’Iran, nuovi focolai bellici si stanno risvegliando in Siria, in Pakistan e in Libano. Hezbollah, al riguardo, si è già detta pronta a rispondere agli attacchi di Israele, che è nuovamente tornato a colpire obiettivi sensibili nel sud del Libano. Tuttavia, anche fra gli alleati, voci critiche iniziano a levarsi verso la strategia difensiva fin qui adottata da Tel Aviv. A venire stigmatizzata è, soprattutto, la volontà di Nethanyahu di proseguire nella linea dura contro Hamas, negando ogni legittimità alla causa palestinese. Il primo ministro israeliano si ostina a ignorare la soluzione dei due Stati, per inseguire una vittoria personale nello scontro. Una vittoria che lo riabiliti agli occhi di un’opinione pubblica sempre più insofferente verso la sue scelte. Sempre ieri, i familiari degli ostaggi hanno fatto irruzione alla Knesset, denunciando il silenzio del governo sulle trattative per liberare i loro congiunti. L’episodio è avvenuto in contemporanea alla presentazione di una mozione di sfiducia da parte del Labour, che potrebbe fortuitamente porre fine al governo del leader più longevo della storia dello Stato Ebraico. Ciononostante, Bibi persevera nella sua condotta di autocrate. Forte dell’appoggio dello Shas, la destra religiosa, rifiuta ogni proposta di pace, incurante degli appelli della comunità internazionale per una tregua immediata. La stessa che da tempo si richiede per il conflitto in Ucraina e che per primo ha riportato la guerra al centro del dibattito internazionale. A quasi due anni dall’inizio delle ostilità, la Guerra nel Donbass non accenna a regredire, essendosi trasformata ormai in una guerra di trincea per il controllo di una sottile linea di terra. Al momento, le forze di Kiev stanno combattendo sul fianco orientale del paese, nei pressi di Bakhmut. Negli ultimi giorni, tuttavia, i russi hanno guadagnato sensibilmente terreno. Tanto che il ministro degli esteri russo Lavrov, intervenendo all’ONU, si è detto convinto che la Russia piegherà la resistenza ucraina, non appena l’Occidente smetterà di sostenere militarmente Kiev. Le speranze del regime di Mosca riposano, a ben pensare, su una non improbabile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali di quest’anno. Il Tycoon non fa infatti mistero di voler rivedere l’impegno degli Usa nell’Alleanza Atlantica. Del resto, sul tema, ha pubblicamente elogiato Orban per il suo rifiuto di inviare nuove armi a Kiev, promettendo di fare lo stesso se tornerà alla Casa Bianca. Per Trump, la difesa della democrazia non è qualcosa in cui gli Stati Uniti possono perdere né tempo né soldi. Al contrario, ha proditoriamente affermato che farà finire la Guerra in Ucraina in un solo giorno, suscitando scetticismo e pubblica ilarità. Invero, l’isolazionismo trumpiano sembra maggiormente congeniale alle mire di Vladimir Putin in Europa. Le recenti minacce del leader russo ai Paesi baltici sono un chiaro indizio della sua intenzione di muovere guerra alla Nato per conquistare il nostro continente. Un’ipotesi che spalancherebbe le porte alla Terza Guerra Mondiale e che alcuni danno già per probabile. Il ministro della difesa tedesco Pistorius ha chiaramente detto che, entro la fine del decennio, dovremo essere pronti a difendere il nostro territorio da una possibile aggressione russa. Ciò con buona pace di un’industria bellica che non conosceva tempi così floridi dalla fine della Guerra Fredda. Solo nell’ultimo anno, la produzione e la vendita di armi è triplicata e si prevede che aumenterà ancora negli anni a venire. Il ricorso all’indebitamento per finanziare le spese di guerra favorirà la contrazione dell’economia mondiale, restringendo lo spazio d’investimento delle imprese in settori non presidiati dall’intervento dello Stato. Inoltre, renderà i paesi schiavi del debito pubblico e ciò non potrà che accrescere, da ultimo, anche le diseguaglianze sociali. Pertanto, occorre ripensare celermente il sistema su cui si fondano le relazioni internazionali. A partire da una non più rinviabile riforma delle istituzioni sovranazionali, che in questo frangente hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza nel garantire la tenuta del sistema globale. È, altresì, necessario ridare impulso al progetto di unificazione europea, dotando l’Unione di un proprio esercito. Un esercito che, in ossequio agli ideali kantiani, non sia permanente, ma stabilmente orientato a ricercare la pace fra le nazioni e disincentivare la corsa al riarmo. Occorre, infine, ripensare noi stessi. Per troppo tempo abbiamo tollerato l’odio e la violenza, convinti dell’intangibilità delle nostre libertà. La guerra nasce ogni volta che si da per scontata la pace e in questo la nostra inerzia è stata vieppiù colpevole. Pertanto, verrebbe da chiedersi, quanto siamo disposti a sacrificare di noi per sentirci ancora liberi? E, soprattutto, siamo disposti a combattere perché essa non ci venga definitivamente strappata via da qualche scaltro autocrate? di Gianmarco Pucci
Dividi et impera
Era da più di un anno che il tema dell’ordine pubblico non tornava al centro del dibattito politico. Ad ottobre del 2021, a scaldare gli animi, fu l’assalto alla sede romana della CGIL da parte dei militanti del partito neofascista di Forza Nuova. Pomo della discordia, in quel frangente, fu la protesta, da parte di esponenti del movimento No Vax, contro il Green Pass, il quale ha permesso agli squadristi di Roberto Fiore di infiltrarsi nella manifestazione, seminando caos e disordini. Oggi, invero, la situazione è latamente più esplosiva. Gli scontri avvenuti sabato a Roma, fra forze dell’ordine e anarchici, sono un innegabile sintomo di un malessere sociale diffuso che, ormai, trova nella violenza il proprio minimo comune denominatore. A dare fuoco alle polveri, risvegliando la galassia insurrezionalista, è stata la vicenda di Alfredo Cospito, esponente di spicco del movimento anarchico, il quale da mesi è in sciopero della fame presso il carcere di massima sicurezza di Opera. Cospito, che è stato condannato in via definitiva per aver gambizzato un dirigente dell’Ansaldo, avrebbe da mesi elaborato una peculiare strategia della tensione, al fine di ottenere la revoca del regime detentivo speciale del 41 bis. Tale misura gli era stata applicata in seguito alla scoperta di messaggi in codice, veicolati dal carcere attraverso riviste anarchiche, ai suoi compagni di lotta, per proseguire la guerra contro lo “Stato borghese e capitalista”. Da qui gli attentati che, negli scorsi mesi, hanno coinvolto le sedi diplomatiche italiane di Bercellona e Berlino. Attacchi che sono stati prontamente rivendicati dai sodali di Cospito, attraverso lettere minatorie inviate alle redazioni del Tirreno e del Resto del Carlino. Un modus operandi che ricorda molto quello in voga negli “Anni di Piombo” e in cui gli anarchici hanno avuto un ruolo affatto trascurabile. Fu, infatti, all’indomani della morte di uno di loro, Giuseppe Pinelli, che in Italia si intensificò l’azione terroristica dei gruppi eversivi di destra e sinistra. Per certi versi, l’opera destabilizzante degli anarchici è da sempre preludio a una possibile deriva sanguinaria dello scontro politico. Tuttavia, a causa anche del tramonto delle grandi ideologie novecentesche, oggi non è più replicabile un simile scenario. Al contrario, è molto più probabile che altri potrebbero avere interesse a celarsi dietro costoro per ricattare lo Stato. Dalle comunicazioni intercettate in carcere, gli inquirenti hanno appreso dell’esistenza di un sodalizio fra Cospito e alcuni boss mafiosi, finalizzato ad ottenere la revoca del 41 bis. Ciò, non per caso, avviene proprio all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro e del vuoto di potere creatosi in seno a Cosa Nostra. La ricerca di nuovi equilibri nella Cupola spiegherebbe, infatti, le ragioni di questa inedita recrudescenza eversiva, la quale tenderebbe, ancora una volta, a intavolare una trattativa con lo Stato, spargendo il terrore. Al riguardo, però, la risposta del governo è parsa fragile e inadeguata. Predicare “legge e ordine”, scivolando irrimediabilmente nella retorica si presta, specularmente, ad esasperare il conflitto in atto, favorendo l’affermarsi dell’imperativo “dividi et impera”. In tal senso, gli interventi degli esponenti della maggioranza sulla questione, sembrano aver riprodotto, in questi giorni, tale schema di condotta. Accusare, nel bel mezzo di un dibattito in Assemblea, come ha fatto Donzelli, l’opposizione di complicità con la mafia, rivelando pubblicamente atti d’ufficio, è stato, oltre che controproducente, gravemente lesivo del prestigio del Parlamento. Se poi, come è stato accertato, tali carte sono state fornite dal Ministero della Giustizia, nella persona del sottosegretario Del Mastro, tale modo di procedere è ancora più discutibile. Usare, a proprio uso e consumo, le Istituzioni per fare propaganda politica rischia di fornire validi motivi a chi vorrebbe sovvertire le basi dell’ordinamento democratico. Specialmente quando certe informazioni non vengono trattate con perizia e attenzione. Donzelli e Del Mastro, che per le loro esternazioni sono adesso sotto scorta, dovrebbero, infatti, sapere che le visite ai detenuti rientrano fra le prerogative dei parlamentari e che non si può convocare una giuria sulla base di accuse meramente pretestuose. Dovrebbero anche sapere che sulla concessione( o la revoca) del 41 bis decide il Ministro della Giustizia, su indicazione della Procura Nazionale Antimafia e che, pertanto, interventi a gamba tesa di questo tipo, oltre che scarsamente rispettosi dell’equilibrio fra poteri, potrebbe nel lungo periodo minare la credibilità dell’esecutivo. Nondimeno, tale comportamento rischia di pregiudicare il cammino delle riforme. In proposito, Giorgia Meloni ha detto recentemente che il 2023 sarà un anno ricco di novità. L’intento è più che lodevole, ma bisogna attenersi ai fatti. Sull’economia, il governo ha fatto poco e quel poco che si è visto , per contrastare la povertà e agganciare la ripresa, è un lascito dell’esecutivo precedente. Sul fronte della giustizia, la linea di Nordio sembra particolarmente ondivaga, oscillando fra il mantenimento della riforma Cartabia e il suo definitivo superamento. Vero banco di prova sembra, invece, essere diventata la riforma presidenziale dell’Italia. Una prospettiva caldeggiata da tutta la maggioranza, ma che potrebbe riservare, se non opportunamente vagliata, amare sorprese. In particolar modo, se dovessero ripetersi eventi come quelli della scorsa settimana, di per sé idonei a dimostrare che in Parlamento c’è gente capace solo di aprire bocca per darvi fiato. di Gianmarco Pucci
Il Kosovo e la crisi nei Balcani
Non abbiamo fatto in tempo ad abituarci al conflitto in Ucraina, che un altro fronte di guerra rischia di aprirsi ai confini orientali dell’Europa. A più di vent’anni dalla fine della Guerra in Kosovo, la regione è tornata ad essere teatro di scontri etnici fra albanesi e serbi. Come è noto, le due culture ( musulmana la prima e ortodossa la seconda) non si sono mai veramente amate e non hanno mai del tutto sopito le proprie aspirazioni nazionaliste. Tanto da legittimare l’intervento della Nato nel 1999, attraverso la missione KFOR, per porre fine allo sterminio dei kosovari da parte delle milizie serbo-bosniache di Milosevic e ripristinare la pace nel territorio. Tale episodio ha poi portato, dieci anni dopo, alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, mai peraltro riconosciuta dalla Serbia e dalla Russia. Da qui, il proliferare di lotte intestine fra le etnie che convivono nel paese. In particolare, da parte dei serbi, stanziati prevalentemente nel nord del Kosovo, che da mesi si oppongono alle ultime decisioni del governo di Pristina. A partire dalla volontà di quest’ultimo di sostituire le targhe delle auto serbe con quelle kosovare. Una questione che, già questa estate, aveva sollevato polemiche e suscitato preoccupazioni. La Comunità Europea a giugno era, non a caso, intervenuta per convincere Pristina a rinviare tale deliberazione al primo settembre, confidando in una proficua ripresa dei negoziati fra le parti. Invece, la situazione è improvvisamente precipitata. La Serbia accusa il governo di Albin Kurti di aver tradito gli accordi di Bruxelles del 2012 e di voler provocare un incidente internazionale, alimentando l’odio fra i due popoli. Pristina, dal canto suo, imputa a Belgrado di voler annettere il nord del paese, creando un casus belli simile a quello costruito ad hoc da Putin in Donbass. Secondo Kurti, solo così si spiegano le proteste che in queste ore stanno attraversando la nazione. Una protesta iniziata con le simboliche dimissioni delle guardie di frontiera, che hanno abbandonato le caserme e restituito le proprie divise. Un esempio che stanno seguendo anche altri funzionari statali, giudici e cancellieri in primis. La gravità della situazione, che rischia nuovamente di trasformare i Balcani in una polveriera, viene, allo stato attuale, monitorata da Bruxelles, che non esclude una soluzione diplomatica della questione. Josep Borrell, Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione, ha assicurato che l’UE sta lavorando a un accordo che permetta di disinnescare questa pericolosa escalation aldilà dell’Adriatico. Gli fanno eco le parole del Cancelliere tedesco Scholz, che d’intesa con Parigi, proporrà al prossimo consiglio europeo un piano di pacificazione per i Balcani. Sulla stessa linea sono anche gli Usa e la Nato, che auspicano una soluzione mediata della crisi in corso. Stoltenberg, tuttavia, ha avvertito la Serbia che la Nato è pronta ad intervenire in qualsiasi momento a sostegno di Pristina, qualora dovesse essere violato il suo spazio territoriale. A tal riguardo, ha già inviato uomini e mezzi al confine settentrionale del paese. Tuttavia, a tali avvertimenti, Il presidente serbo Vucic non ha replicato. Al contrario, incontrando gli ambasciatori di Russia e Cina, ha espresso preoccupazione per la crisi che si è aperta e ha manifestato la sua disponibilità per una soluzione ordinata ed equa della stessa. Restano, però, i dubbi. Vucic è da sempre molto vicino al Cremlino e il pericolo che il conflitto in Ucraina possa allargarsi, coinvolgendo Stati satelliti del vecchio Impero Sovietico, resta alto. A dispetto dei buoni propositi, Vucic non ha mai smentito le sue ambizioni in Kosovo. Pur restando neutrale verso le proteste svoltesi in settimana a Mitrovica, a pochi km dal confine serbo, il presidente non si è dissociato dai fatti e non ha detto nulla per tacitare gli animi. Al contrario, a quei 10.000 cittadini serbi che sono scesi in piazza, sventolando la sua bandiera , ha detto di comprendere il loro dissenso e questo non può farci dormire sonni tranquilli. In primo luogo, per le conseguenze negative che un eventuale esodo di profughi potrebbe avere sulle coste italiane. Se dovesse prodursi una situazione critica anche nel Canale di Otranto, dopo quella che quotidianamente si vive nel Mediterraneo, la vicenda potrebbe avere risvolti imprevedibili dal punto di vista della gestione dell’immigrazione e degli scambi commerciali sulla rotta balcanica. In secondo luogo, qualora dovesse crearsi un nuovo focolaio bellico nel Vecchio Continente, nessuno potrebbe più escludere un conflitto su larga scala, probabilmente nucleare. Un’ipotesi che tutti stanno cercando di scongiurare e che porterebbe i Balcani a divenire l’ultimo tassello prima del grande salto nel buio della Terza Guerra Mondiale. di Gianmarco Pucci
Tu quoque Britain
Ha destato molto scalpore, qui da noi in Italia, la prima pagina dell’Economist, popolare giornale economico britannico, contenente una vignetta giudicata da molti offensiva per il nostro Paese. Nello specifico, l’immagine riprende Liz Truss, premier inglese uscente, vestita da pretoriano romano, intenta a combattere con uno scudo a forma di pizza e un forcone di spaghetti. Il tutto sormontato da una scritta campale, in cui si paragona l’instabilità politica del Regno Unito a quella che tradizionalmente contraddistingue il Belpaese( la frase è, infatti, “Welcome to Britaly”). C’è da dire che non è la prima volta che l’Italia finisce nel mirino della stampa inglese. Solo quattro anni fa, un’altra vignetta satirica dell’Economist, aveva commentato negativamente la crescita economica dell’Italia, ritraendo un gelato tricolore pronto ad esplodere. Tuttavia, questa volta, la “perfida Albione” potrebbe aver fatto male i suoi conti. Il governo Truss, durato appena 44 giorni, rischia di preannunciare un periodo, più o meno lungo, di forti tensioni politiche e sociali. A determinare le dimissioni di Truss sarebbe stata, infatti, un’azzardata manovra fiscale che, tagliando le tasse per i più ricchi, avrebbe provocato una tempesta finanziaria e il crollo della sterlina in borsa. Da qui, le dimissioni prima del ministro delle Finanze, Kwasi Kwarteng, e poi della stessa premier. Ad oggi, Liz Truss risulta, comunque, detenere due record. Quello di essere stata la terza donna, dopo Margaret Tatcher e Theresa May, a rivestire il ruolo di Primo ministro britannico e quello di essere stato il premier meno longevo della storia del Regno Unito. Talmente breve, da battere il primato di George Canning, morto nel 1827, a quattro mesi dall’arrivo a Downing Street. Invero, Liz Truss verrà ricordata anche per essere stata l’ultimo premier del regno di Elisabetta II e il primo di quello di Carlo III. Un fatto epocale, che ha lasciato sgomenti non solo i sudditi inglesi, ma pure il resto del globo. Beatles a parte, la Regina Elisabetta era la più popolare icona vivente di una Gran Bretagna che faticherà molto a ritrovare la propria identità. Con lei, si potrebbe quasi dire, si è definitivamente chiuso il Novecento. Quello stesso Novecento che Hobsbawm definì il secolo breve e feroce, ma in cui non è mancato il coraggio e la speranza nel futuro. Uno spirito che Elisabetta ha incarnato alla perfezione, reggendo fra l’altro ai tanti scandali che hanno investito in questi anni la Famiglia reale. In primis, i divorzi dei suoi figli e la morte di Lady Diana nel 1997. Un episodio che sembrò mettere in crisi la Monarchia britannica e che solo l’autorevolezza di Elisabetta riuscì a evitare. Infine, per venire agli anni più recenti, lo scandalo degli abusi sessuali, costata al Principe Andrea l’allontanamento dalla Corte e la rinuncia a tutti i titoli militari e reali. Stessa sorte toccata al secondogenito di Carlo, Henry, il cui matrimonio con l’attrice americana, Meghan Markle, ha ricordato a molti la sciagurata unione fra lo zio di Elisabetta, Edoardo VIII, con l’attrice statunitense, Wallis Simpson, e che gli costò, a causa delle simpatie naziste di entrambi, la Corona. In quel frangente, fu provvidenziale l’intervento di Winston Churchill che, intuendo l’imminente guerra con la Germania, si prodigò in favore dell’abdicazione al fratello del Re, Giorgio VI. Un acume e una lungimiranza che nè Truss né Boris Johnson hanno dimostrato di avere. Quest’ultimo, poi, che si assume erede di Churchill, è stato un’autentica delusione. Dopo aver cavalcato la Brexit ne ha, infatti, subito le conseguenze. Secondo l’Ocse, a causa della Brexit, il Regno Unito crescerà meno del previsto nel prossimo triennio. Una crisi economica che la congiuntura energetica rischia di aggravare enormemente e che sta inducendo ad alcuni ripensamenti. I laburisti, in particolare, starebbero pensando di rinegoziare l’accordo con l’UE e di tornare nella Comunità Europea, qualora dovessero vincere le prossime elezioni generali. Tale disappunto, verso un divorzio non dimostratosi così allettante, si sarebbe, tuttavia, fatto strada anche nei conservatori. Festini a parte, dietro le dimissioni di luglio di Johnson ci sarebbe stata la volontà dei parlamentari conservatori di sbarazzarsi di un premier ingombrante e inadeguato. Un ripudio che i conservatori hanno nuovamente manifestato, chiudendo alle aspirazioni di Johnson, novello Cincinnato, di poter tornare a Downing Street dopo l’abbandono della sua delfina. Al suo posto, invece, è arrivato Rishi Sunak. Sunak, quarantadue anni ed ex ministro del Tesoro, aveva già sfidato Truss come premier, perdendo nel voto fra gli iscritti al partito. A cagione dei grandi cambiamenti che la Gran Bretagna sta attraversando, egli è il primo premier di origine indiana della storia inglese. È anche il più ricco, contando su un patrimonio personale maggiore di quello del Re d’Inghilterra. Un binomio, dunque, che oltre a mettere in discussione i canoni tradizionali della politica d’oltremanica, sembrano quasi realizzare una profezia. Quella di una riscossa delle ex colonie e del definitivo tramonto di quell’Imperialismo britannico che qualcuno, illusoriamente, crede ancora di poter riesumare. di Gianmarco Pucci
A che punto è la notte?/2
“La guerra finirà solo quando la Federazione Russa deciderà di finirla. Solo allora, dopo un vero cessate il fuoco, ci potrà essere un serio accordo di pace”. A dichiararlo, durante la sua visita a Kiev di mercoledì, è stato il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres. Camminando fra le macerie della Capitale, Guterres ha manifestato tutto il suo sconcerto verso la brutale aggressione russa all’Ucraina. Per il Segretario delle Nazioni Unite è, infatti, inaccettabile assistere a una guerra come questa nel XXI Secolo. Una guerra che sta mietendo enormi perdite fra i civili e che si sta dimostrando sempre più foriera di orrori indicibili. Da qui l’esigenza, avvertita da Guterres, di giungere quanto prima a una soluzione diplomatica della crisi. Soluzione che, tuttavia, non è all’orizzonte, a causa del persistere del conflitto. Le truppe russe, infatti, sono sempre più in difficoltà sul terreno. Esse hanno ripreso a bombardare Kiev e Kharkiv, ma senza riportare risultati significativi. Neanche a sud, dove ieri sono ripresi gli attacchi della contraerea su Odessa, la situazione sembra migliorare. A Mariupol, poi, la situazione è veramente drammatica. Nonostante gli attacchi incessanti, le forze occupanti non sono ancora riuscite a sgominare gli ultimi resistenti, asserragliati nell’acciaieria cittadina da molti giorni. Ciò sta imprimendo un nuovo corso al conflitto in essere. Tanto che per rimuovere lo stallo in atto, il Cremlino starebbe pensando di ordinare la mobilitazione generale il prossimo 9 maggio. Non è ancora chiaro cosa accadrà quel giorno, ma è certo che Putin chiamerà a raccolta il proprio popolo per combattere contro i “nazisti” ucraini e i loro alleati. Tuttavia, questo non dovrebbe rappresentare un allargamento del conflitto ad altre nazioni. Malgrado, infatti, le tensioni degli ultimi giorni, la Russia non sembrerebbe, almeno in teoria, disposta ad imbarcarsi in una guerra totale con l’Occidente. È ,comunque, vero che la settimana appena trascorsa sul fronte diplomatico è stata abbastanza negativa. Nel suo colloquio con il capo delle Nazioni Unite, Putin ha ribadito che non accetterà mai di sedersi al tavolo dei negoziati con Kiev, senza prima ottenere il Donbass e la Crimea. Il leader russo, successivamente, è tornato ad attaccare la Nato, colpevole a suo dire di ostacolare un qualsiasi accordo di pace. Accuse che si sono aggiunte alle minacce che il Cremlino ha rivolto nuovamente all’Occidente. Specialmente dopo il vertice di Ramstein, dove la Nato ha deliberato l’invio di nuove armi all’Ucraina e ha preannunciato nuove e pesanti sanzioni. Sanzioni che colpiranno asset strategici in Europa e che contribuiranno al deprezzamento del rublo. Obiettivo di Usa e Ue è, infatti, quello di dissuadere la prosecuzione bellica, imponendo un embargo energetico alla Russia dagli esiti devastanti. Una prospettiva che allarma il Cremlino e che accresce la tensione internazionale. Se la sicurezza della Russia dovesse essere in pericolo, ha detto Putin, nulla esclude che si possa ricorrere alle armi atomiche. Un sinistro ammonimento che, tuttavia, è stato stemperato poche ore dopo da Lavrov. Il Ministro degli esteri russo ha affermato di ritenere inammissibile un conflitto nucleare e che la Russia non è in guerra con la Nato. Lavrov ha anche detto che, seppur con fatica, i negoziati con l’Ucraina stanno proseguendo e ha dichiarato di stare lavorando a un possibile trattato di pace. Notizia, quest’ultima, confermata anche da Zelensky, il quale pur di ristabilire la pace in Ucraina si è detto pronto ad incontrare Putin e a discutere con lui della neutralità del paese. Un invito che al momento non è stato raccolto dal Cremlino, ma che non esclude clamorosi colpi di scena nei prossimi giorni. Specialmente in vista del 9 maggio, una data fatidica per comprendere l’evoluzione del conflitto e i possibili scenari futuri. articolo di Gianmarco Pucci
A che punto è la notte?
È passato più di un mese dall’inizio della guerra in Ucraina, ma l’offensiva russa non sembra conoscere tregua. Malgrado gli spiragli di pace intravisti negli ultimi giorni, nella notte sono infatti ripresi i bombardamenti a Kiev e nel nord-ovest dell’Ucraina. Attacchi che nelle ultime ore stanno interessando anche il sud del paese. A Mykolaiv, in particolare , dove i raid della contraerea russa si sono fatti più persistenti e brutali. Obiettivo dei russi è, a quanto pare, quello di tagliare i rifornimenti provenienti dal porto di Odessa. Città che ormai da giorni si sta preparando a una possibile invasione anfibia da parte della marina di Putin. Eppure, malgrado tale dispiegamento di forze, l’esercito russo è sempre più in difficoltà sul terreno. L’accanita resistenza del popolo ucraino e la mancanza di risorse starebbe infatti convincendo lo Zar e il suo Stato Maggiore a ridimensionare gli obiettivi dell’operazione militare in corso. In particolare, a concentrarsi maggiormente sul Donbass e meno sul resto del paese.Un cambio di programma che ha riaperto le trattative, svoltesi ieri a Instanbul sotto l’egida di Erdogan. La Russia si è detta disposta a sospendere i bombardamenti su Kiev e Kherson a condizione che venga riconosciuta l’indipendenza della regione separatista. Si è poi detta disponibile a discutere di un cessate il fuoco immediato in cambio della promessa di neutralità dell’Ucraina, ovvero della sua non adesione alla Nato o a qualunque altra alleanza militare. Una pretesa sulla quale Mosca non vuole trattare, essendo indispensabile per il Cremlino tutelare la propria sicurezza strategica. Kiev, dal canto suo, seppur scettica, si è dimostrata accondiscendente verso questa richiesta, rimarcando tuttavia l’appartenenza dell’Ucraina all’Europa. Zelensky ha, inoltre, apprezzato i progressi registratisi nella trattativa, auspicando a breve un incontro con Vladimir Putin. Invito che il diretto interessato ha al momento rispedito al mittente per ovvi motivi. In primis, perché è evidente che Putin non accetterà mai di sedersi al tavolo senza aver conseguito sul campo un risultato concreto. In secondo luogo, perché da avveduto autocrate teme che l’isolamento internazionale possa portare a un rapido declino economico della Russia e della sua leadership. Peraltro, il timore di un golpe contro di lui ha infiammato nuovamente il dibattito internazionale. Specialmente dopo il discorso di Biden a Varsavia. Il presidente Usa, a tal proposito, ha ventilato proprio un cambio di regime in Russia quale soluzione privilegiata per risolvere la crisi. Pronta, al riguardo, è stata la reazione del Cremlino, che ha accusato Biden di non aiutare con le sue “sparate” il difficile negoziato in corso. Più prudente, invece, è stato fino ad ora l’atteggiamento dell’Europa. In particolare quello della Francia, che dissociandosi dagli Usa ha dimostrato , a dispetto delle sanzioni, di non voler interrompere il dialogo con Mosca. E Proprio ieri Putin e Macron sono tornati a sentirsi per discutere di un eventuale piano di pace. Una prospettiva che comunque sta prendendo forma in queste ore tormentate, seppur con fatica. La forma dell’accordo sembra propendere verso la finlandizzazione dell’Ucraina e la divisione del suo territorio. Una richiesta che potrebbe essere accettata da Kiev, ma che non è affatto certo che fermi il conflitto in modo duraturo. Al contrario, è molto probabile che riproponendosi lo scenario siriano in Europa si possa creare una zona di conflitto nel cuore del Continente. Ciò rappresenta un rischio per la stessa integrità della UE e la sua sicurezza. Non a caso, e giustamente, gli alleati hanno già detto di non essere disposti a cedere neanche un centimetro del proprio territorio ai russi. Una Superpotenza che, come recentemente avvenuto pure con l’avvelenamento di Abramovic, ci ha insegnato quanto possa essere imprevedibile e minacciosa. articolo di Gianmarco Pucci
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Se fosse un legal drama, uno di quelli che piace tanto agli americani, lo si potrebbe intitolare ” tutti gli uomini di Matteo Renzi “. Invece, con il famoso film di Pakula del 1976, narrante la vicenda del Watergate, l’inchiesta sulla fondazione Open sembra avere ben poco in comune. Se non altro perché Renzi, a differenza di Nixon, non sembra avere intenzione di restare in silenzio. Infatti, ha già annunciato querela nei confronti dei magistrati di Firenze che lo hanno indagato per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Secondo il leader di Italia Viva sarebbe in atto da anni, verso di lui e la sua famiglia, una vera e propria persecuzione da parte dei giudici di Firenze. Per Renzi, inoltre, i PM non avrebbero la credibilità per indagare o processare lui e il suo entourage. Da qui la denuncia del senatore per abuso d’ufficio, violazione dell’articolo 68 della Costituzione e della legge 140/2003 a tutela dell’immunità parlamentare, sporta contro il procuratore Creazzo e i sostituti Nastasi e Turco. Pronta al riguardo è stata la replica dell’ANM, la quale ha definito le parole di Renzi inaccettabili per il prestigio della Magistratura. Però, ed è appena il caso di dirlo, le accuse di Renzi non sono totalmente infondate. L’inchiesta su Open, fondazione creata per gestire i fondi a sostegno di Renzi, ha preso avvio dopo la nascita di Italia Viva nel 2019. Da allora, come lamentato dal diretto interessato, lui e la gente a lui vicina sono stati bersagliati da accuse, talvolta rivelatesi destituite di ogni fondamento giuridico. A partire dall’arresto dei genitori di Renzi, ordinato nel 2019 dal PM Luca Turco( lo stesso che oggi incrimina l’ex premier) e poi annullato dal Tribunale del Riesame. Oppure le inchieste che hanno visto coinvolti in passato i deputati Lotti e Boschi, esponenti di spicco del “giglio magico” renziano, e che oggi tornano ad essere inquisiti nell’ambito di un’inchiesta puramente indiziaria e, pertanto, di dubbia moralità. Etica che difetta, come difettava anche nei processi a carico di Berlusconi, per il modo in cui le indagini vengono condotte e per il merito delle questioni trattate. Non è, infatti, equa una giustizia che ricorre, in violazione delle più normali norme costituzionali e di procedura, ai Trojan per spiare indebitamente le conversazioni fra privati, senza l’autorizzazione della competente autorità giudiziaria. Non è, inoltre, eticamente tollerabile che la Magistratura entri a gamba tesa ad alterare le vicende politiche di una nazione ogni volta che lo ritenga opportuno e per favorire la carriera di singoli magistrati. Carrierismo che, come certificato anche dai recenti scandali che hanno interessato il variegato mondo della giustizia, è la principale fonte del cortocircuito, tipicamente italiano, fra giustizia e politica. Lo ha detto nel suo discorso di insediamento anche il Presidente Mattarella, il quale ha invitato il Parlamento a non procrastinare una riforma della giustizia quanto mai urgente. L’invito, ed è storia di questi giorni, è stato accolto dal governo ed è un’ occasione da non perdere per troncare i torbidi legami fra magistrati e politici. Legami che hanno reso malsano il clima che si respira nelle aule di giustizia italiane. In tal senso, proprio la coincidenza fra il varo della riforma e la resurrezione dell’inchiesta Open, apre la porta a dubbi e congetture. Si tratta solo di coincidenze oppure siamo di fronte all’ennesimo colpo di coda di un sistema che non accetta di essere messo in discussione? Che si voglia colpire uno per mandare un segnale a tutti gli altri? Alle prossime ore l’ardua sentenza, possibilmente non di condanna. articolo di Gianmarco Pucci
Schegge impazzite
E pensare che solo un paio di anni fa, forte del sorprendente risultato conseguito alle elezioni Europee, in molti lo vedevano già leader in pectore del nuovo centrodestra italiano. Invece, Matteo Salvini è riuscito nel giro di un battito di ciglia a disperdere tutto quel consenso che, attingendo alla retorica populista che gli è propria, aveva guadagnato agli esordi di questa legislatura. Un inizio che, però, non era cominciato sotto i migliori auspici. L’alleanza demagogica con il M5S non ha infatti portato bene al leader della Lega, rivelandosi per lui un vero e proprio abbraccio della morte. Basta pensare a come quella parentesi si è conclusa, ovvero con l’uscita della Lega dal governo in favore del PD. Un metodo che tafazzianamente Salvini continua da allora a replicare, evidenziando il proprio dilettantismo politico. Come l’idea, dopo la fine del Conte bis, di entrare nel governo Draghi, mostrandosi critico a fasi alterne, in nome di un malsano istrionismo che porta il personaggio a credersi il centro del mondo. Esibizionismo che ha replicato anche in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. Solo così si può definire, infatti, il metodo adottato da Salvini per scegliere il successore di Mattarella. Un metodo ,che privilegiando la contrapposizione al dialogo, ha portato all’unico risultato di spaccare la coalizione di centrodestra, favorendo la propria marginalizzazione e la resurrezione di altri. In primo luogo quella di Silvio Berlusconi, che come l’Araba Fenice è risorto ancora una volta dalle ceneri, dimostrandosi più scaltro di Salvini nel prevedere le manovre parlamentari e le mosse degli avversari. Proprio ieri Forza Italia ha fatto sapere che Berlusconi sta lavorando per potenziare il versante moderato della coalizione. Moderati che, considerando anche la costante crescita del partito del non voto, si rivelano sempre più decisivi nel vincere le competizioni elettorali. Salvini è, inoltre, riuscito nell’intento di rafforzare il ruolo di Fdi e di Giorgia Meloni. La leader della destra italiana, infatti, conclusasi la campagna per il Quirinale, è stata la prima a certificare la dissoluzione dell’alleanza, rivendicando per sé il ruolo di faro del populismo italiano. Si può allora facilmente dedurre che il futuro per il leader del Carroccio non è più così roseo, celandosi dietro il raffreddamento dei rapporti con gli alleati il rischio di un crescente isolamento della Lega nell’arco costituzionale. Da mesi, infatti, in via Bellerio non si parla d’altro della fronda interna al partito capeggiata da Giorgetti e sostenuta dai governatori, sempre più insofferenti verso la linea oppositiva e movimentista del “capitano”. Malumori che negli ultimi giorni sono stati condivisi pure da Umberto Bossi, fondatore e storico segretario della Lega Nord. Per Bossi, che non ha mai nascosto la sua antipatia per Salvini, la Lega deve tornare alle origini, abbandonando la deriva nazionalistica verso cui l’ha condotta l’attuale segretario. Ha poi ammonito i suoi relativamente alla necessità di traghettare il partito nel PPE, ricordando come la Lega appartenga geneticamente alla sinistra e alla tradizione federalista-autonomistica. Parole queste che dovrebbero indurre a una sana riflessione sul futuro, specialmente in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Eppure, Salvini, sempre più solo all’interno del centrodestra, continua a scambiarsi accuse con gli (ex) alleati, addebitando a loro i suoi errori. Un atteggiamento che testimonia il nervosismo del segretario, ma anche la sua frustrazione per l’ennesima batosta che allontana il centrodestra da una vittoria politica ormai non più così scontata. articolo di Gianmarco Pucci
Se questo è un Parlamento
Giorgio III d’Inghilterra, apprendendo della Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane, disse ironicamente che il 4 Luglio 1776 sarebbe stato ricordato come il giorno in cui non era accaduto niente di importante per il mondo. Lo stesso si potrebbe dire per ciò che è accaduto da noi in Italia nelle ultime ore. Ancora una volta, dopo il precedente di Napolitano, il Parlamento si è trovato costretto ad adottare per il Quirinale una soluzione di ripiego, derogando alla prassi costituzionale che non contempla la rielezione del Capo dello Stato. Come nel 2013, si è preferito infatti convergere sul nome di Sergio Mattarella per nascondere la crisi strutturale dei partiti, gli unici veri sconfitti in questa elezione per la presidenza della Repubblica. Una crisi che evidenzia la debolezza delle istituzioni democratiche e di cui la crescente sclerotizzazione della classe dirigente è indice indefettibile. Certamente il metodo di proporre nomi da sacrificare in aula non ha pagato, così come non ha pagato la sordità di quelle forze politiche che hanno scelto di non decidere, celandosi dietro veti e obiezioni. In tal senso, coloro che in queste ore plaudono alla rielezione di Mattarella sono i principali sconfitti di questa campagna per il Quirinale. Matteo Salvini ha, in merito, dichiarato di avere la coscienza a posto e di avere fatto tutto il possibile per scongiurare lo stallo parlamentare. In vero, Salvini, che in queste ore è finito sul banco degli accusati, è il principale responsabile di questa disfatta. Lo è, perché per la prima volta il centrodestra aveva avuto la possibilità di eleggere un suo esponente alla più alta carica dello Stato e si è disperso proponendo nomi irricevibili. Carente è stato anche il metodo impiegato dal leader della Lega per stimolare la condivisione riguardo a un nome comune. Esso, invece che condurre alla sintesi, ha al contrario sortito l’effetto opposto di deviare la discussione sul binario morto del “muro contro muro”. Non a caso in molti, dentro e fuori la Lega, accusano Salvini di avere vanificato l’unità della coalizione, dimostrandosi non all’altezza della situazione. Ugualmente sconfitto in questa tornata è stato il Partito Democratico. Il segretario Letta, infatti, respingendo ogni proposta degli avversari, si è trovato costretto alla fine a sposare la linea del M5S, che fin dall’inizio di questa avventura si era speso per una riconferma di Mattarella. Per uscire da questo vicolo cieco, Letta avrebbe potuto proporre il nome di Mario Draghi. Tuttavia, a causa del fuoco incrociato delle correnti, si è incartato, uccidendo la candidatura sul nascere. Ciononostante, il premier ha avuto un ruolo non secondario nella contesa. La sua mediazione, iniziata dopo il confronto con Salvini a Palazzo Chigi, ha permesso di sbloccare la situazione, rafforzando il suo ruolo di risorsa indispensabile per la Repubblica. Un fatto singolare da cui traspare, però, la sempre maggiore irrilevanza verso cui stanno scivolando i partiti politici. Paradossalmente, questa è stata la prima campagna per il Quirinale che ha visto fiorire un gran numero di candidature tecniche( Belloni, Massolo, Cassese) e che è stata risolta da un tecnico. In realtà, il protagonismo degli “alti profili” inizia a divenire preoccupante e si pone come indice della deriva autocratica verso cui le democrazie occidentali si stanno avviando. Il timore è che attribuendo eccessiva importanza a una singola persona, pur dotata di straordinarie competenze, si possa arrivare a ritenere dannose e inutili le istituzioni. Non a caso, dopo questa magra figura, si è tornato a parlare di elezione diretta del Capo dello Stato. Un’opzione che, almeno per quello che riguarda il nostro paese, non è preferibile per due motivi. In primis, perché comporterebbe una modifica dell’ordinamento assai rilevante. In secundis, perché attraverso l’introduzione del Presidenzialismo si realizzerebbero i sogni più torbidi di quanti negli ultimi quarant’anni hanno tentato in tutti i modi di sbarazzarsi della nostra Costituzione. E questo è un rischio che non possiamo assolutamente permetterci. articolo di Gianmarco Pucci
Marea nera
“Si è trattato di un attacco preordinato, squadrista e di chiara matrice fascista”. Con queste parole il Segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, si è espresso per condannare l’assalto dell’altro ieri alla sede romana del sindacato. Per Landini, infatti, l’aggressione subita dalla Cgil è una grave ferita per la democrazia e testimonia, qualora ce ne fosse ancora bisogno, di come essa sia sempre più minacciata da una chiara recrudescenza neofascista. Fascismo che oggi si ripropone sotto le spoglie del Sovranismo, ma che non ha minimamente mutato la propria essenza. Al contrario, approfittando della crisi sociale innescata dall’emergenza sanitaria, esso cerca, in modo subdolo e meschino, di veicolare le sue idee eversive, sfruttando il malcontento popolare e servendosi della violenza come mezzo di affermazione della propria identità. Tale camaleontismo, tuttavia, non sorprende, essendo da sempre l’estrema destra incline a mutare forma a seconda delle circostanze e del periodo storico. E se, dunque, un secolo fa i fascisti attaccavano le Camere del lavoro per difendere lo Stato dal “pericolo rosso”, oggi, invece, lo farebbero per tutelare l’ordine costituzionale. Sempre per tutelare l’ordine precostituito essi si ritrovano a sposare le più assurde teorie complottiste, mettendo in dubbio la scienza e le sue istituzioni. Ma soprattutto per boicottare un governo che, a parer loro, farebbe esclusivamente l’interesse dei poteri forti e delle grandi élite finanziarie mondiali. Un governo, che con l’introduzione del Green Pass obbligatorio dal prossimo 15 Ottobre, si appresterebbe a gettare la maschera, spogliando il popolo delle proprie libertà costituzionali. Fin qui le motivazioni che hanno indotto Roberto Fiore e i suoi camerati ad assaltare la sede della Cgil. Ma si tratta di motivazioni identiche a quelle addotte da altri movimenti neofascisti, che in Europa stanno dilagando causa della crisi delle forze politiche democratiche e progressiste. Crisi che anche qui da noi in Italia ha visto emergere partiti antisistema e ostili al multiculturalismo e alla globalizzazione. Come Fdi e la Lega, che pur non aderendo pienamente alle idee estremiste di Forza Nuova ne condividono parte della retorica populista. In particolare, si sono evidenziati singolari punti di contatto fra Fdi e la galassia neofascista da cui provengono Fiore e Castellino. Un’inchiesta di alcune settimane fa, condotta dal giornale on line Fanpage, ha infatti ripreso in video, durante una cena in un ristorante di Milano, l’eurodeputato di Fdi, Carlo Fidanza, mentre interloquiva con il fantomatico barone nero Roberto Jonghi Lavarini. Un soggetto di comprovata fede fascista( da cui il folkloristico soprannome) accusato in passato di intrattenere relazioni con la massoneria e i servizi segreti deviati. Nel video si vedono Fidanza e altri convitati pronunciare frasi antisemite, cantare canzoni del ventennio ed esibirsi in saluti romani. Fidanza, in attesa di acquisire il girato completo, è stato sospeso dal partito da parte di Giorgia Meloni. Ciononostante, il comportamento della Meloni è sembrato a tratti ambiguo. Atteggiamento che ha replicato dopo la notizia dei fatti di Roma e che ha innescato nuovi e ulteriori polemiche. Più precisamente, Meloni ha dichiarato che è in atto una macchinazione della sinistra per danneggiare lei e il suo partito. Secondo lei, infatti, gli avversari starebbero tramando di escluderla dall’arco costituzionale, nascondendosi dietro il pretesto che Fdi è un partito fascista. Accuse che in queste ultime ore, a dispetto delle coincidenze, sta trovando terreno fertile anche nella campagna elettorale per le amministrative. A Roma, in particolare, dove Domenica e Lunedì si voterà per il ballottaggio, hanno destato scalpore le parole usate da Enrico Michetti, candidato sindaco del centrodestra, per minimizzare l’eccidio degli ebrei da parte dei nazifascisti. Frasi che hanno suscitato indignazione unanime da parte della politica e della comunità ebraica e che hanno indotto il diretto interessato a un doveroso mea culpa. Eppure, nonostante ciò che è stato detto e ciò che è avvenuto in queste ultime ore c’è chi ancora nega l’evidenza, tentando di banalizzare e quindi minimizzare un fenomeno in preoccupante crescita. Un fenomeno che descrive a pieno la crisi della democrazia moderna, del suo paradigma socio-culturale e che usa il negazionismo per abbattere lo Stato di diritto, seminando caos e disordine.