Nascita di un popolo

Gli echi delle prime battaglie sui campi della Virginia non si erano ancora placati, quando i delegati delle tredici colonie americane giunsero a Filadelfia per firmare un documento di portata storica. Dopo la battaglia di Bunker hill, infatti, divenne evidente che le aspirazioni dei patrioti statunitensi di emanciparsi dalla Madrepatria inglese, fondando una nazione nuova, libera e indipendente, fosse non solo possibile, ma anche moralmente realizzabile. Da qui, la sottoscrizione della Dichiarazione d’Indipendenza, ratificata il 4 luglio 1776 dai Padri Fondatori nel corso del Secondo Congresso Continentale. La Dichiarazione fu redatta da un’apposita commissione di cinque membri e riprendeva, a grandi linee, le istanze contenute nella Risoluzione di Lee del 1774. Tuttavia, il documento si arricchiva di puntuali richiami ai diritti inviolabili dell’uomo. In primis quello di eguaglianza, che rende tutti gli uomini artefici del proprio destino e liberi davanti alla legge. Fondamentale, in tal senso, fu l’apporto in commissione di Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, che scrisse personalmente questa prima parte della Dichiarazione. Non di meno, il contributo dato da Benjamin Franklin e John Adams alla stesura. Nel rivendicare il diritto dei cittadini a ribellarsi verso gli abusi del potere statuale, costoro dichiaravano la necessità di dare vita a un ordinamento diverso da quello imposto dalla Corona britannica. Ne derivò un documento che sintetizza efficacemente, facendoli convivere insieme, il razionalismo illuminista, il radicalismo democratico e l’etica puritana. Questi valori sono tuttora parte integrante della cultura statunitense e hanno costituito il nucleo ideale da cui è scaturita la Guerra d’Indipendenza americana. Invero, i primi segni di insofferenza verso il dominio inglese si registrarono ben dieci anni prima del Congresso di Filadelfia. Successivamente alla Guerra dei Sette anni, la Gran Bretagna si trovò a dover colmare un gravoso debito di guerra che ne aveva dissestato le finanze. Per ovviare alle perdite, il Parlamento inglese decise di introdurre nuove tasse e balzelli a danno dei sudditi. In particolare, le vessazioni si fecero più stringenti nei confronti delle colonie, che fino ad allora godevano di un regime fiscale relativamente basso. La prima importante protesta si verificò, quindi, a Boston, nel Massachusetts. Qui i ribelli si opposero all’introduzione della tassa di bollo sulla carta ( Stamp act) da parte del governo britannico. I coloni rivendicavano il loro diritto a inviare propri rappresentanti a Westminster per deliberare su tale importante aggravio fiscale ( No taxation without representation). Il governo di Giorgio III decise, pertanto, di esentare le colonie dal pagamento dell’odioso balzello, pensando di sedare così la protesta. Non rinunciò comunque a esercitare le proprie potestà sui territori nordamericani. Nel 1773, un nuovo focolaio fu rappresentato dalla decisione della Corona di concedere alla Compagnia delle Indie Orientali la vendita esclusiva del tè importato dalla Cina in America. Tale scelta, penalizzando fortemente gli intermediari statunitensi, scatenò la rivolta contro il governo britannico. A dicembre, nei pressi del porto di Boston, un gruppo di coloni, appartenenti all’organizzazione “I figli della libertà” rovesciarono in mare, travestiti da pellerossa, l’intero carico di tè ospitato nelle navi ormeggiate alla fonda. Dopo questo episodio, passato alla storia come Boston Tea Party, il governo dichiarò la chiusura del porto di Boston, fino al risarcimento integrale dei danni da parte dei coloni. Nondimeno, inviò un nuovo governatore incaricato di sopprimere l’insurrezione. Il Quebec act, infine, che precludeva ogni aspirazione espansionistica verso il Canada dei coloni, fu da sola sufficiente a innescare la miccia della guerra. Dopo gli scontri di Lexington e Concord nell’aprile del 1775, la prima vera battaglia è quella di Bunker hill, una collina nelle vicinanze di Boston. Pur partendo in svantaggio, sono gli inglesi a riportare il maggior numero di perdite durante la battaglia. A differenza dell’esercito britannico, però, le forze indipendentiste sono scarsamente disciplinate e organizzate. Pertanto, il Congresso decise di costituire un esercito stabile e permanente, a cui capo fu messo un ricco proprietario terriero della Virginia, ovvero George Washington. Washington, che sarà il primo presidente degli Usa, era consapevole dell’inferiorità tattica e numerica dei suoi uomini. Ciononostante, egli riuscì a sfruttare l’entusiasmo patriottico delle sue truppe, infliggendo dure sconfitte all’esercito di Sua Maestà. Persa Long Island, le sorti della guerra volgono finalmente favore degli americani, a partire dalla battaglia di Saratoga Springs(1777). Ma è solo con la presa di Yorktown quattro anni dopo che iniziano i negoziati di pace fra l’Inghilterra e i rappresentanti delle colonie. Fondamentale, al riguardo, è stato l’appoggio ricevuto dagli americani da parte delle altre potenze europee. In primo luogo la Francia, grande sconfitta nella Guerra dei Sette anni con l’Inghilterra, ma anche la Spagna e l’Olanda contribuirono efficacemente alla vittoria finale della causa indipendentista. Tale vittoria ha simboleggiato, citando Thomas Paine, l’affermazione definitiva dell’epoca della ragione sull’assolutismo monarchico nel Nuovo Mondo. Ha, altresì, contribuito a fondare un nuovo popolo, discepolo eletto di quegli ideali egualitari, democratici e federalisti espressi nella Costituzione degli Stati Uniti. Un popolo che, nato sfavorito, è riuscito a emanciparsi, consegnando al pianeta, con tenacia e ottimismo, un grande impero globale che sopravvive tutt’oggi.

All’ombra del Sole Nero

“Meditate che questo è stato e che ciò che è accaduto può accadere di nuovo”. Sono questi alcuni dei versi più celebri della poesia “Se questo è un uomo”, scritta da Primo Levi per ricordare la terrificante esperienza vissuta dagli ebrei durante l’Olocausto. Una tragedia che Levi ha vissuto personalmente ad Auschwitz e che è diventata la parabola di un intero popolo. Con la Shoah, infatti, gli ebrei hanno visto realizzarsi per la prima volta il proprio genocidio. Un lucido sterminio a cui si è giunti poco per volta e nel silenzio generale. A dispetto di quanto si possa immaginare, l’antisemitismo non è cominciato in Germania con il Nazionalsocialismo. Esso era largamente presente in Europa da almeno cinquanta anni e costituiva uno dei principali argomenti impiegati dalla retorica nazionalista per propagandare le proprie idee. Tipico, in tal senso, è stato “l’Affare Dreyfus”, che nel 1894 vide imputato per alto tradimento Alfred Dreyfus, capitano dell’esercito francese, da parte della magistratura militare di Parigi. Il caso, che divise l’opinione pubblica d’oltralpe, contestava a Dreyfus la redazione di una lettera, comprovante rapporti di collaborazione fra l’ufficiale e la Germania nemica. L’accusa, che lo Stato Maggiore rivolgeva a Dreyfus, sembrò da subito un maldestro tentativo dell’esercito di sbarazzarsi dell’uomo, a causa delle sue origini semite. Le prove addotte nel processo erano puramente indiziarie, ma ciò non risparmiò a Dreyfus un lungo soggiorno in prigione, da cui ne uscì fortemente provato. Solo dopo vent’anni, infatti, la Cassazione francese riconobbe l’innocenza dell’ufficiale, riabilitandolo completamente. La strada, tuttavia, era aperta e il montante antisemitismo trovò presto degli argomenti ancora più convincenti per diffondere il proprio veleno. In Germania, ad esempio, una solida base culturale a tali tesi venne dalla crescente fascinazione dei tedeschi per l’esoterismo. Non era raro, nella Germania del primo dopoguerra, che accanto alla religione ufficiale convivessero riti popolari( volkisch) che si richiamavano al paganesimo della mitologia nordica. La riscoperta di questi culti fu inevitabilmente favorita dalla delusione dei tedeschi per la sconfitta nella Grande Guerra. Ciò fece la fortuna di maghi e cartomanti, che si prestavano a preconizzare l’avvento di un’era straordinaria per la Germania, sotto le insegne di un nuovo Reich. Un Impero che, sulla scia di un grande Fuhrer( condottiero), avrebbe finalmente restituito ai tedeschi l’orgoglio perduto, ovvero quello di essere la razza superiore per eccellenza. La Razza ariana, figlia di Odino, che nella Germania barbarica, all’ombra del Sole Nero, dominava su tutte le altre culture, sottomettendole e annientandole. Fu sufficiente questo per legittimare l’ideologia nazista agli occhi di un popolo insofferente e prostrato. Il resto lo hanno fatto gli eventi. Al malcontento della popolazione, seguì presto l’indignazione verso la debole risposta della Repubblica di Weimar alla recessione economica. Una recessione scaturita dai pesanti debiti di guerra, dovuti a titolo di sanzione dalla Germania alle nazioni vincitrici. In questo clima, i nazisti fomentarono l’odio verso gli ebrei, rei di aver venduto il Paese alle potenze capitalistiche e borghesi. Dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, nelle scuole si iniziò ad insegnare ai bambini che il Fuhrer, come Gesù sulla Croce, avrebbe salvato il mondo dal cancro giudaico, cancellandoli dalla faccia della Terra. Lentamente, tutta la Germania sprofondò nell’abisso di tale follia ideologica, il cui fanatismo pervase tutti gli ambiti della società. Dalla cultura allo sport, dal diritto alla scienza, ogni cosa divenne il riflesso del delirio di un solo uomo. Un uomo, che pur acclamato dalle folle, è diventato il simbolo stesso del Male Assoluto. Egli, nato in una famiglia della media borghesia austriaca, ha visto nello sterminio degli ebrei un modo per liberarsi dei propri incubi interiori. E nel farlo non ha esitato a legare al suo destino tutto il suo popolo, trascinandolo nel baratro della guerra. Più di lui, comunque, resta colpevole l’ignavia di chi ha implicitamente accettato “la soluzione finale” praticata nei lager. Eccezion fatta per Oscar Schindler e pochi altri, nessun tedesco si è opposto a tale abominio e non vi è stata, a differenza dell’Italia e della Francia, una resistenza vera all’avanzata del Nazismo. Come riportato da Enzo Biagi, in un suo famoso reportage del 1947, i tedeschi dell’epoca, per loro stessa ammissione, erano tutti convinti del necessario genocidio degli ebrei. Tale indifferenza, oltre a farci inorridire, dovrebbe indurci a più di una riflessione. Quanto tale atteggiamento non è oggi presente, seppur in forme diverse, nella nostra società? A tal riguardo, per ciò che concerne il nostro Paese, ci vengono in soccorso i dati offerti dalla polizia postale. Secondo gli esperti, negli ultimi tre anni i crimini d’odio in Italia sono drasticamente aumentati. Strumento privilegiato, per diffondere messaggi antisemiti, resta la rete, che, grazie alla crescente espansione dei social, riesce a coinvolgere sempre più persone. Il proliferare, infine, di teorie complottiste sul Coronavirus e sui vaccini fornisce il supporto indispensabile per plagiare le menti più facilmente suggestionabili. Non è infrequente, infatti, che dal negare l’esistenza del Covid si arrivi a negare la veridicità dell’Olocausto. Questo ci riporta al monito di Primo Levi a non dimenticare, pena il ritorno ai tempi bui che furono. Al male, infatti, per replicarsi, è sufficiente l’altrui tolleranza per infettare tutta la società. Del resto, il volgere del tempo è capace di addormentare anche gli animi più brillanti. Da qui la necessità di preservare la memoria e di esercitarla sempre nel rispetto dell’altrui opinione. Una capacità che stiamo perdendo, anche a causa del venir meno degli ultimi testimoni di quell’orrore sconvolgente, che non smette di seminare odio e pregiudizi fra i popoli ancora adesso.                                                                                                               di Gianmarco Pucci 

Cento anni di pandemie

Pensavamo di essere fuori dall’incubo, ma a quanto pare ci sbagliavamo. Dalla Cina giungono nuove e allarmanti notizie su una ripresa dei contagi da Covid 19. Al momento il governo di Pechino non ha fornito dati certi su questa inedita recrudescenza del virus, ma è evidente che essa è figlia della scellerata politica di riapertura del paese voluta dal regime. Dopo mesi di tolleranza zero, il governo cinese ha infatti deciso di seguire la strada opposta, eliminando ogni ostacolo alla libera circolazione di uomini e merci. Circolazione che, inevitabilmente, favorisce la riproduzione del virus e che ha indotto il nostro governo ad intervenire. Per prevenire il pericolo di nuove varianti, il Ministero della Sanità ha emesso un’ordinanza che impone tamponi obbligatori e quarantene per chi viene dall’Asia orientale. Una soluzione resasi necessaria in seguito ai casi di infezione registrati nei giorni scorsi agli aeroporti di Milano e Roma. Dalla Cina, ha detto il ministro Schillaci, è arrivato chiaro il messaggio di come non si gestisce una pandemia. Il regime non ha fatto prevenzione come doveva e ha omesso di somministrare i vaccini alle categorie più fragili della popolazione. Al momento, comunque, sembra scongiurato il pericolo di nuove restrizioni, non essendo omicron in grado di arrestare l’efficacia dei vaccini occidentali. Malgrado la riluttanza di Pechino nel condividere le proprie informazioni epidemiologiche, non pare dunque plausibile il replicarsi della situazione di tre anni fa. Nel 2019, infatti, il virus giunse in Europa, inesorabile e silenzioso, cogliendoci sostanzialmente impreparati. Specialmente per la pressoché totale ignoranza riguardo alle sue origini. Ad oggi sappiamo che il coronavirus non è altro che una mutazione, più letale e contagiosa, del virus della Sars, che nel 2003 provocò la morte di 811 persone e l’infezione di oltre 8000. Esso, isolato per la prima volta da un ricercatore italiano, Carlo Urbani, proviene dal mondo animale e si è adattato rapidamente all’uomo attraverso il consumo di alcune carni. Inizialmente si pensò che la trasmissione avvenisse dai gatti selvatici, di cui gli asiatici si nutrono anche per fini propiziatori e religiosi. In seguito si è scoperto che a veicolare il virus è il pipistrello, largamente venduto anche nel mercato di  Wuhan da dove è partita l’attuale pandemia. A questa tesi, affermata dalla scienza ufficiale, se ne contrappone un’altra, sostenuta dai cosiddetti “negazionisti del Covid”. Per costoro il virus non esiste, o per meglio dire, esso è un deterrente impiegato dai governi mondiali per lucrare sui vaccini commercializzati dalle case farmaceutiche. Essi, come è noto, alimentando surreali tesi complottiste, giocano sulla credulità popolare per propagandare idee destituite da ogni fondamento scientifico. Invero, a differenza del passato, oggi sappiamo molte più cose sul virus e siamo quindi in grado di tutelarci meglio da esso. Abbiamo, infatti, superato lo shock iniziale di non vivere in una società ideale, immune da questo genere di emergenze. Un’esperienza che le generazioni precedenti alla nostra conoscevano bene e che accettavano senza abbandonarsi all’isteria collettiva. Nella storia europea, accanto alle guerre, non sono infatti mai mancate le pandemie. Tipica, a tal riguardo, è stata l’epidemia di Influenza Spagnola che ha sconvolto il mondo giusto un secolo fa. A dispetto del nome, il primo caso di questa nefasta influenza polmonare fu registrato in Kansas, presso Fort Riley, dove si addestravano le truppe che andavano a combattere nella Grande Guerra. Le trincee sarebbero state il principale focolaio dell’epidemia, a causa del sovraffollamento, delle precarie condizioni igieniche e della malnutrizione presente fra i soldati. Questi, tornando a casa nel 1918, avrebbero poi infettato la popolazione civile, provocando in due anni la morte di oltre 50 milioni di persone. La Spagnola, i cui tragici effetti furono non dissimili da quelli della Peste Nera del 1348, fu favorita anche dagli insoliti cambiamenti climatici intervenuti fra il 1915 e il 1918. Le piogge e il grande freddo di quel periodo avrebbero, casualmente, consentito al virus di riprodursi e circolare più rapidamente. La sindrome è poi scomparsa da sola, mutando in un genotipo del virus influenzale. Restarono, però, le conseguenze della malattia. Non furono infrequenti i casi di persone che, pur sopravvivendo alla Spagnola, accusarono problemi neurologici e depressivi per il resto della loro vita. Da allora, per almeno un secolo, grazie anche al progredire della scienza medica e alla scoperta dei vaccini da parte del biologo scozzese Alexander Fleming, il mondo non si trovò più a vivere esperienze così traumatiche. Pandemie minori, comunque, hanno continuato ad attraversare il cammino dell’uomo. Come l’Asiatica, che provocò qualche milione di morti fra il 1954 e il 1968, mutando poi nell’Influenza di Hong Kong, debellata completamente nel 1970. L’eziopatogenesi, anche in questo caso, è comune a tutte le altre epidemie dell’ultimo secolo. A cominciare dall’alimentazione, che in alcune parti del globo è particolarmente povera e denutriente. Specularmente, nei paesi ricchi, il cibo si spreca e si seguono diete sregolate. L’abuso di carboidrati e proteine animali è alla base di numerosi disturbi alimentari( fra tutti l’obesità) forieri di patologie ben più gravi e insidiose. Non a caso, una ricerca di poco tempo fa, ha dimostrato come il numero dei tumori sia in aumento, anche a causa del crescente consumo di carni bovine nei fast food e nelle steakhouse. C’è, infine, il problema degli allevamenti intensivi e dell’impiego in agricoltura di mangimi e fertilizzanti chimici. Attualmente non vi sono dati inoppugnabili sui rischi per la salute umana derivanti dal consumo dei cibi in tal modo trattati. Tuttavia, è ormai pacifico che lo sfruttamento rapace del suolo e delle sue risorse ha un impatto deflagrante sul benessere dell’ecosistema. Un ecosistema sempre più minacciato dall’opera predatoria dell’uomo, che per inseguire il demone del profitto si dimentica finanche dell’esistenza della morte. I recenti decessi di uomini illustri( sportivi, politici, artisti), accanto a quelli di persone comuni, ci ricorda quanto le nostre esistenze siano caduche innanzi a una morte ineluttabilmente democratica. Ci spinge, inoltre, a ripudiare quel dogma che fino a ieri, confidando nei successi della scienza, ci aveva illusi di poter vivere in eterno, incuranti dei mali che affliggono l’uomo fin dalla notte dei tempi.                                                                                                                                                                                  Di Gianmarco Pucci 

Da Assisi al Mondo

Da Assisi al Mondo per costruire orizzonti di pace. Un’esigenza che, più che un invito, risuona oggi come un accorato appello a non fare la guerra. Un’aspirazione condivisa anche da Papa Francesco, che da tempo si spende inutilmente per la fine delle ostilità in Ucraina. Un conflitto che ha ormai imboccato un sentiero pericoloso, preda come è della tentazione atomica. In tale frangente, si inserisce il messaggio evangelico di San Francesco, di cui martedì si è celebrata la festa ad Assisi. Innanzi alla brutalità della guerra, dunque, si riscopre il senso e l’importanza della pace. Una pace che, come Francesco ci ha insegnato, non può prescindere dal dialogo fra le genti. Solo con il dialogo, infatti, è possibile abbattere quei muri eretti dall’orgoglio e dall’indifferenza. Esattamente come ha fatto lui otto secoli fa, quando, all’indomani della V Crociata, si recò in Egitto per parlare con il Sultano, Malik Al Kamil, gettando le basi per quel dialogo interreligioso che continua ancora oggi. Del resto, che l’umiltà di Francesco abbia vinto la tracotanza dei potenti lo ha detto pure il cardinale Zuppi, Presidente della Cei, celebrando la santa messa nel santuario di Assisi. Sua Eminenza si è, in particolare, soffermato su quegli atteggiamenti forieri di conflitto, ritenendoli antitetici rispetto ai sentimenti di amore e fratellanza perseguiti da Francesco. Da qui, l’invito del cardinale alla politica a prodigarsi per il bene comune, senza disinteressarsi del benessere del Creato. Parole a cui hanno fatto eco quelle del Presidente Mattarella, il quale ha evidenziato come la logica della guerra, generando morte e devastazione, finisca per consumare la vita delle persone. Per il Capo dello Stato, la pace è un diritto iscritto nelle coscienze. È una parte di noi, come lo è il desiderio di libertà, e che si realizza non appena si alza lo sguardo oltre il proprio presente. Motivo per cui è dovere di ognuno intervenire per interrompere questa spirale di odio e di violenza, perché la pace non è solo l’assenza del conflitto, ma soprattutto  presenza della giustizia. Un richiamo, quest’ultimo, che non è passato inosservato, pensando alle tante criticità che affliggono il nostro tempo. Come l’emergenza ambientale e la necessità di salvaguardare il Pianeta dall’opera predatoria dell’uomo. Un tema reso ancora più vivo dall’esigenza di accelerare sulla transizione energetica, specialmente dopo la crescita esponenziale del prezzo del gas. Ma non solo questo. Terremoti, alluvioni, uragani che sconvolgono il Globo sono sempre più frequenti e minacciano la sopravvivenza dell’uomo quanto l’uso delle armi di distruzione di massa. In tale ottica, ancora una volta, l’esempio di Francesco ci aiuta a leggere il presente. La natura è, infatti, largamente presente nella riflessione teologica del Santo di Assisi. A partire dal Cantico delle Creature, lode scritta da lui per celebrare la bellezza del Creato in tutte le sue forme. Per Francesco tutti gli uomini sono fratelli, perché figli di una natura immagine vivente di Dio. Essa, a dispetto di quanto predicato dalla Scolastica medioevale, non è più fonte di peccato, ma madre di infiniti figli. Una madre che Francesco per primo chiede di rispettare, reguardendo quanti vorrebbero sfruttarla a fini economici. Torna, dunque, a replicarsi quel contrasto fra uomo e natura che da sempre è causa di conflitti e ingiustizie. Lo sfruttamento rapace del suolo, nella riflessione francescana, è, difatti, alla base di un’iniqua distribuzione della ricchezza. Una forma di discriminazione che nei secoli ha continuato ad accrescersi nel seno della moderna società dei consumi, ma che oggi, nel pieno del trionfo della tecnica, ha creato sperequazioni e disuguaglianze ancora più profonde. Secondo l’ONU, la diseguaglianza sociale in Occidente è cresciuta in trent’anni di più del 75%. Tale dato, oltre a descrivere una crisi strutturale dell’attuale modello socioeconomico, getta una luce sinistra sul futuro dell’umanità. Il rischio è quello precipuo di creare una società di alienati, di automi che coltivano l’apatia come deterrente per sfuggire a una quotidianità deprimente e dolorosa. Si comprende, allora, quanto di fronte a tali insidie il messaggio cristiano di salvezza sia rivoluzionario. La speranza di costruire un mondo migliore deve sempre essere alimentata dalle nostre coscienze. Alla stregua della luce votiva che splende sulla tomba di Francesco. Una luce che illumina l’avvenire dell’Italia e che non ci abbandona in balia della tempesta.                                                                                                                  Di Gianmarco Pucci

Rasputin, l’uomo che sussurrava agli Zar

La settimana scorsa, a pochi Km da Mosca, un convoglio di auto su cui viaggiava Alexandr Dugin, meglio noto come “l’ideologo di Putin” è stato attaccato mentre rientrava da una missione in Ucraina. L’attentato, in cui ha perso la vita la figlia di Dugin, Darya, è stato da subito attribuito dalle autorità russe ai servizi di sicurezza ucraini, i quali avevano seguito le mosse del consigliere di Putin e di sua figlia fin dal loro arrivo nel Paese. Secondo fonti di Kiev, costoro erano giunti in Ucraina con l’obiettivo di sostenere le truppe filorusse che controllano il Donbass e denunciare i crimini commessi dagli ucraini verso la minoranza russofona. Dugin ha anche, in tale frangente, auspicato lo sterminio del popolo ucraino, colpevole secondo lui di tradimento verso la madrepatria russa e i suoi valori fondanti. Una tesi che egli, in qualità di filosofo molto famoso in patria, ha sempre sostenuto, elaborando un pensiero dottrinario originale e poco ortodosso. Dugin, infatti, è noto come un pensatore nazionalista, fautore della teoria euroasiatica, che fondendo fra loro tradizionalismo russo, postmodernismo ed esoterismo giunge a postulare l’avvento di un grande impero orientale in grado di soppiantare le democrazie liberali occidentali. Attingendo a filosofi come Heidegger e Nietzsche, Dugin si fa portavoce di un nuovo pensiero conservatore paneuropeo, fedele al Marx delle origini, ma alieno dal bolscevismo tradizionale, secondo lui da declinare in un’ottica puramente nazionalistica e russocentrica. Etnocentrismo molto diffuso nella Germania Nazista e ben simboleggiato dalla passione di Hitler per il  neopaganesimo ariano, verso cui Dugin nutre grande ammirazione. Tuttavia, malgrado la sua vicinanza all’ideologia nazista, Dugin è stato spesso accostato ad un altro personaggio importante della moderna storia russa. Per il suo ruolo di consigliere di Putin, egli è stato, infatti, ribattezzato dalla stampa estera il Rasputin del XXI secolo. Quello stesso Rasputin che, nella Russia Zarista, acquisì, grazie a presunte doti taumaturgiche, un’importanza notevole durante l’Impero dei Romanov. Egli, monaco proveniente dalla Siberia sudoccidentale, giunse a San Pietroburgo alla fine del 1905, recando con sé la fama di mistico e di guaritore. Doti che gli attirarono la benevolenza della principessa Milica del Montenegro e di sua sorella Anastasia, grandi esperte di spiritismo e pratiche occulte. Non per niente, fu proprio il carisma di Rasputin su di loro a introdurlo a corte, dove per le sue doti di starevic ( profeta) divenne in breve tempo un protetto dello Zar Nicola II e di sua moglie Alessandra. Specialmente la Zarina nutriva grande fiducia in Rasputin, dopo che esso guarì il figlio Aleksej dall’emofilia. Questo fu il primo dei tanti miracoli attribuiti a Rasputin e che contribuiranno negli anni successivi ad accrescerne la fama di guaritore. Tuttavia, a corte molti lo odiavano e lo ritenevano un ciarlatano. Secondo il principe Feliks Jusupov, suo futuro assassino, Rasputin era un impostore che si era intrufolato nella famiglia Romanov, sfruttando le sue conoscenze dell’ipnosi e del mesmerismo, per arricchirsi indebitamente. Fu anche accusato di essere un eretico e di perseguire una vita dissoluta, dedita all’alcol e alla lussuria più sfrenata. Rasputin era, infatti, un assiduo frequentatore della setta religiosa di Chlysty, dedita a pratiche orgiastiche e come tale bandita dalla religione ufficiale. Ciononostante, ad attirargli le antipatie della dieta russa non furono le sue abitudini di vita, ma la sua crescente influenza sullo Zar, all’indomani dello scoppio della Prima guerra mondiale. Le sue continue ingerenze nella politica russa e il suo notevole ascendente sulla Zarina, furono sempre più viste con sospetto da quanti ritenevano il mistico siberiano una spia della Germania nemica. Questo, unitamente al degrado morale portato a corte, fu alla base di vari complotti per ucciderlo. Di questi solo l’ultimo, ordito da Jusupov, Pavlovic e Purishkevich andò a buon fine. Ciò contribuì a consolidare la fama sulla presunta immortalità del monaco, capace di sfuggire fortuitamente alla morte in virtù di un patto suggellato con il demonio. Superstizioni che non ne hanno intaccato la fama, giunta inalterata fino a noi. Invero, a prescindere da ogni speculazione parascientifica, resta che Rasputin è stato certamente un mago della parola, un abile manipolatore che è riuscito, facendo leva sulle credenze popolari diffuse nella Russia dell’epoca, a soggiogare ai suoi voleri un’intera nazione. Un po’ come fanno oggi i moderni consiglieri politici, che prestano il loro ingegno al potere per indirizzarne l’opera. Ed esattamente come ha fatto Dugin, la cui feroce retorica populista oggi paga un prezzo altissimo. Quello di aver sacrificato la vita della figlia sull’altare della ragion di Stato.                                                                                                                                        articolo di Gianmarco Pucci

Inferno: viaggio nel profondo sud

Napoli, un paradiso abitato da demoni e, dopo di lei, specchio del male oscuro dell’Italia, la Sicilia, la Calabria e, infine, la Puglia. Un male oscuro che soffoca da sempre il Mezzogiorno e che gli impedisce di emanciparsi dalla sua condizione di moderno Inferno dantesco. Parallelismo ben presente nello storico saggio di Giorgio Bocca, intitolato per l’appunto Inferno, e che descrive, senza indulgere in velleitari entusiasmi, una realtà complessa, fatta di paradossi e di ambiguità. Scritto all’indomani delle stragi di mafia del 1992, Inferno sposa un punto di vista critico fino all’eccesso, raccontando in modo ruvido e diretto la piovra. Tuttavia, anche a causa della riconosciuta antipatia di Bocca per i meridionali, l’opera fallisce nel suo intento di offrire soluzioni al problema, escludendo qualunque possibilità di riscatto dalla piaga mafiosa. Un intento che, al contrario, ha animato, fino all’estremo sacrificio, l’azione di Giovanni Falcone. Per Falcone, di cui pochi giorni fa si è celebrato il trentennale della morte, la mafia è un fenomeno tipicamente umano e, come tale, con un inizio e una fine. Fine che, però, tarda ad arrivare. Anche a causa della  volontà, spesso assente, dello Stato ad impegnarsi per debellare questo cancro. Ma, soprattutto, per i torbidi legami fra Cosa Nostra, la politica e l’alta finanza che da tempo si sono saldati fra loro. Vincoli che rendono bene l’idea di come la mafia sia immanente alla società italiana e ne condizioni l’evoluzione dei costumi. Essa, infatti, nasce in Sicilia pochi decenni prima dell’unificazione italiana e, almeno agli inizi, presenta i caratteri tipici di una qualunque società segreta risorgimentale. Invero, come affermato nel rapporto di Pietro Ulloa, Procuratore del Re a Trapani, tali fratellanze hanno iniziato a diffondersi sul finire della dinastia Borbonica, presentandosi come vendicatori dei soprusi commessi dai nobili sul popolo. Non a caso, secondo il magistrato, tali sette nascevano in territori in cui la giustizia era amministrata in maniera primitiva e arbitraria da parte di chi deteneva il potere. Una caratteristica che ancora oggi identifica l’organizzazione mafiosa, quale società verticistica contraddistinta da un vincolo familistico e unitario fra i suoi appartenenti. Tuttavia, è con l’Unità d’Italia che si inizia a prendere coscienza del problema. Dopo la vittoria dello Stato sul brigantaggio, iniziano ad affluire al Ministero degli Interni rapporti allarmanti dei prefetti sulla situazione dell’ordine pubblico in molte province del Mezzogiorno. Di particolare importanza è il rapporto Sangiorgi, che per primo denuncia la presenza in Sicilia di un’organizzazione tentacolare, capillarmente diffusa su tutto il territorio e che, giovandosi dei legami di sangue fra i suoi affiliati, gestisce numerose attività illecite connesse al controllo dei pascoli o al contrabbando dei prodotti agricoli. Il rapporto contribuirà ad infoltire il materiale già raccolto dalla Commissione d’inchiesta del 1867, istituita dal Parlamento proprio per indagare sul problema. Dai verbali della Commissione si evince come non solo in Sicilia, ma anche in Calabria e Campania sussistano, pur con le dovute eccezioni, organizzazioni di questo tipo. Paranze di campieri, che in una società rurale come quella italiana, assurgono al rango di vassalli dei nuovi signori. Uomini che seguono, peraltro, una rigida deontologia( la cosiddetta regola dell’onore), quale fondamento di una psicologia pressoché impenetrabile dall’esterno. Tale codice d’onore , tuttavia,  è stato abbandonato dalla mafia a partire dagli anni “70”, successivamente all’insorgere del nuovo e fiorente traffico della droga. La droga, infatti, ha cambiato radicalmente la mafia, rendendola più spregiudicata. Ma, in particolare, essa ha permesso la definitiva sostituzione della vecchia mafia, devota a riti ancestrali, con la nuova mafia imprenditoriale. Una mafia, cioè, che trae la sua forza dalla collusione con gli apparati pubblici e che si avvale per i suoi affari della collaborazione con altre associazioni criminali. Come l’Ndrangheta in Calabria, che da tempo ha scavalcato Cosa Nostra in termini di prestigio, grazie anche al sodalizio con la massoneria deviata. Ovvero, la Camorra, che dopo la parentesi di Cutolo a Napoli, ha visto emergere prepotentemente il ruolo del clan dei Casalesi in provincia di Caserta. Clan che, peraltro, controlla ormai da anni il racket del litorale laziale con l’apporto della malavita locale. Complice, poi, la globalizzazione, la mafia di oggi è sempre di più una mafia apolide, che transita nei mercati, infettando aziende e tessuti produttivi un tempo ritenuti sani. Ciò testimonia senz’altro un arretramento nella lotta dello Stato contro di essa. Malgrado le importanti leggi approvate fra gli anni “80” e”90″, lo Stato fa ancora troppo poco per sradicare questa gramigna velenosa. Come ha ricordato recentemente il Premier Draghi, lo Stato deve investire maggiormente nel prevenire il fenomeno, favorendo il diffondersi della cultura della legalità nelle scuole e combattendo la povertà. Sotto il profilo giuridico, il Presidente del Consiglio ha insistito nella necessità di dotare i prefetti e le forze dell’ordine di strumenti più efficaci nel contrasto alla mafia. In particolare, per ciò che concerne la confisca dei beni, strumenti accessori del potere mafioso, ma che accrescono il prestigio dei boss fra la gente comune. Infine, la lotta all’omertà, che solo in parte il pentitismo ha scalfito. Esso, infatti, costituisce ancora oggi la migliore garanzia per la mafia di fare affari senza sporcarsi le mani. Un rischio che giustifica lo scetticismo di Bocca sull’imminente fine di un fenomeno, talmente compenetrato con lo Stato, da far sembrare illusoria qualsiasi speranza di cambiamento.                                                                                                                           articolo di Gianmarco Pucci 

Racconto di una rivoluzione mancata

Il 1968 è stato senza ombra di dubbio uno degli anni più significativi nella storia del XX Secolo. Un anno che, come una rapida istantanea, ha ritratto un periodo, incorniciando quella stagione di grandi speranze iniziate nel 1960. Tuttavia, nonostante l’economia mondiale prosperasse, erano ancora molte le contraddizioni generate dalla moderna società dei consumi. Contraddizioni che descrivevano un mondo fermo al decennio precedente, in cui le differenze sociali e razziali erano ancora predominanti. Infine, la Guerra Fredda, la costate minaccia nucleare e ,da ultimo, l’insorgente conflitto in Vietnam, restituivano un quadro della situazione internazionale fortemente precario, costruito sulla temporanea non belligeranza fra Usa e Urss. È, dunque, in questo contesto che matura la contestazione giovanile nelle università americane. le prime proteste iniziarono a Berkeley, in California. Qui gli studenti, seguendo gli insegnamenti filosofici di Herbert Marcuse, occuparono il campus per ore, protestando contro la guerra in Vietnam e gli stili di vita imposti dal consumismo. Per i giovani, in perfetta sintonia con il credo gandhiano della non violenza, occorreva costruire un mondo nuovo, senza più frontiere né muri, in cui la libertà poteva essere fruita da tutti. Fu così, seguendo l’onda lunga delle proteste negli Usa, che la contestazione giunse, nel giro di pochi anni, anche in Europa. Uno straordinario ruolo di propaganda, in tal senso, fu svolto dalla televisione, che trasmettendo quotidianamente le immagini delle proteste in America contribuì  a rendere la rivolta globale. In Italia la prima università a venire occupata fu quella di Trento nell’Autunno del 1967. A seguire la Cattolica di Milano, la Normale di Pisa, le Università di Torino, Napoli e Roma. Nella Capitale, il Sessantotto si materializzò all’indomani dell’occupazione della Facoltà di Architettura, a Valle Giulia, in cui gli scontri particolarmente cruenti con la polizia furono motivo di biasimo da parte di politici e intellettuali( tra cui Pier Paolo Pasolini) e suscitarono un certo allarme sociale nell’opinione pubblica. La contestazione, infatti, iniziò ad assumere venature politiche sempre più evidenti e, con il passare dei mesi, coinvolse anche gli operai. Essi, dal canto loro, diedero vita a un vivace movimento di lotta che ambiva a colmare le diseguaglianze generate dalla società del benessere. Tale convergenza di idee fra il movimento studentesco e quello operaio si realizzò compiutamente in Francia. Soprattutto a Parigi, dove nel mese di Maggio migliaia di persone scesero in piazza per contestare il governo di De Gaulle e la vecchia società tradizionalista, capitalista e imperialista che il generale rappresentava( fu il cosiddetto Maggio francese). Il connubio fra studenti e operai durerà qualche anno e produrrà effetti anche in Italia, raggiungendo il suo apice nell’Autunno caldo del 1969. Tuttavia, nonostante i suoi genuini propositi, la contestazione ebbe vita breve, risolvendosi in un mero fuoco di paglia. Gli storici più accreditati, a tal riguardo, sono ormai concordi nell’affermare che essa fu una rivoluzione culturale mancata. Pur muovendo da giuste premesse di rinnovamento della società, essa ha finito troppo presto per arenarsi sul progetto, chiaramente utopico, di costruire un mondo ideale, senza più classi sociali o status privilegiati. Tale premessa porterà, all’indomani del fallimento della contestazione, alla radicalizzazione del dibattito socio-politico e alla nascita del terrorismo durante gli “anni di piombo”. Fulgidi esempi di tale deriva violenta sono state certamente le Brigate Rosse in Italia e la banda Baader-Meinhof in Germania. Eppure, nonostante la schizofrenia ideologica che lo  ha contraddistinto, il Movimento del “68” ha comunque contribuito, a suo modo, al progresso della società. Se, infatti, non è riuscito a fornire un modello di società, diverso e alternativo, rispetto a quello avversato, è però stato capace di incidere sull’evoluzione dei suoi costumi, anticipandone gli effetti. Dalla musica al cinema, dalla radio alla tv, fino alla moda e al linguaggio sono state tante le novità che il “68” ha introdotto, svecchiando una società troppo spesso bigotta e perbenista. In questo senso le grandi battaglie degli anni “70” a favore della legalizzazione dell’aborto e del divorzio sono sicuramente da ritenere il più grande lascito di questo fenomeno che ha riscritto la storia del Novecento.

Un difficile dopoguerra

Per molti il 18 Aprile è una data priva di significato, scivolata nel dimenticatoio della storia e come tale depauperata del suo valore simbolico. In realtà, per noi italiani il 18 Aprile è, o perlomeno dovrebbe, essere cerchiata in rosso sul calendario per l’importanza che ha avuto nel disegnare l’Italia di oggi. Il 18 Aprile del 1948, infatti, si tennero le prime vere elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Elezioni che videro per la prima volta fronteggiarsi apertamente e alla luce del sole due fronti politici destinati a polarizzare la vita pubblica italiana nei successivi decenni. In quella competizione elettorale gli elettori,  uomini e donne, furono chiamati a compiere, dopo la fine della Monarchia, una scelta fondamentale fra due diverse e, a tratti inconciliabili, idee di nazione. Da un lato vi era, infatti, un fronte popolare composto dalla sinistra socialista e comunista che, in virtù dei solidi legami con l’Urss, suscitava parecchi timori al di là dell’Atlantico. Dall’altro c’era la Democrazia Cristiana con i suoi alleati che ambiva a traghettare il Paese verso una democrazia compiuta, alleata degli Stati Uniti e saldamente inserita nella compagine occidentale. Ciò bastò a rendere particolarmente aspra e partecipata la campagna elettorale, non avendo lesinato le due opposte tifoserie critiche e accuse ai rispettivi avversari. Il livello dello scontro in atto era legittimato altresì dalle turbolenze internazionali suscitate dall’insorgente Guerra Fredda che la competizione elettorale italiana amplificava enormemente. Il timore, infatti, che la vittoria dei social-comunisti potesse far divampare  in Italia una rivoluzione marxista  generò consistenti preoccupazioni nei ceti imprenditoriali e industriali del Paese. La paura di perdere la propria ricchezza indusse più di uno a trasferire all’estero i propri patrimoni. Timori condivisi anche dal governo e dalla Democrazia Cristiana. A tal riguardo, temendo un’insurrezzione armata, il ministro degli Interni, Mario Scelba, chiese al governo di far scendere in campo l’esercito per fronteggiare l’emergenza istituzionale. Un’opzione che il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, scoraggiò fino all’ultimo, confidando in un intervento più del Cielo che degli uomini. E la fede ha senz’altro svolto un ruolo non secondario nella campagna elettorale del 1948. Dalla nascita dei comitati civici promossi dall’Azione Cattolica di Luigi Gedda alle orazioni radiofoniche di padre Lombardi ( chiamato “il microfono di Dio”) furono numerose le iniziative volte ad indirizzare il voto dei cattolici verso la DC. Il Pontefice Pio XII arrivò finanche ad affermare che il voto a favore dei comunisti era da considerarsi un voto contro Cristo e la sua Chiesa. Critiche a cui il FDP rispose dispiegando un imponente apparato di uomini e mezzi, finanziato in gran parte da Mosca e dal Patto di Varsavia. Tali fatti indussero anche gli Usa a regolarsi di conseguenza, pena l’esclusione dell’Italia dagli aiuti economoci del Piano Marshall. Un rischio che il Paese, uscito sconfitto e devastato dalla guerra, non poteva permettersi. Nella primavera del 1948 erano infatti numerose le imprese da ricostruire e le famiglie in condizioni di indigenza. Sofferenze che il governo di Alcide De Gasperi tentò di lenire, vedendo negli aiuti economici e nell’Alleanza Atlantica l’unica possibilità di resurrezione per una nazione che doveva necessariamente rinascere. In tal senso, De Gasperi è stato un illustre esempio di virtù cristiane e politiche, essendo riuscito nell’impresa di conciliare un Paese di per sé incline alla frammentazione e a renderlo migliore di quanto a volte possa sembrare. Il suo spirito di servizio, la sua totale abnegazione verso la comunità nazionale sono stati e dovranno essere da esempio in futuro per chiunque vorrà occuparsi della cosa pubblica. Perché come ha detto recentemente anche Papa Francesco la politica è la più alta forma di carità. Senza politica non vi può essere progresso per la società. E senza progresso  non vi può essere libertà. Una lezione che la vittoria delle forze democratiche nella primavera di settantacinque anni fa testimonia, a pieno titolo, ancora oggi.

L’ora del crepuscolo

Ci sono momenti nella vita di un Paese destinati a fare la storia. Momenti che nella loro tragicità contribuiscono a formare la coscienza collettiva di un popolo. Il 16 Marzo 1978 è stato uno di questi. Quella mattina, che molti ricordano e che ad altri è stata raccontata, l’Italia si ritrovò risucchiata in un vortice di paura e sgomento nell’apprendere la notizia che mai nessuno si sarebbe aspettato, neanche lontanamente, di udire. Le agenzie di stampa riportavano, infatti, la notizia di un attentato verificatosi in via Mario Fani, una traversa di via Trionfale, in cui era avvenuto il sequestro di Aldo Moro, ex presidente del Consiglio e presidente della DC, e l’uccisione degli uomini della sua scorta. L’attentato, subito rivendicato dalle Brigate Rosse, durò pochissimo ( circa 10 minuti), ma riuscì comunque nell’intento di colpire al cuore lo Stato. Il rapimento di Moro gettò rapidamente il paese nel caos e fece paurosamente tremare la fragile democrazia italiana. La gravità dell’accaduto spinse i sindacati a  proclamare lo sciopero generale dei lavoratori e la Camera dei Deputati a sospendere ogni attività legislativa in corso fino a quel momento. Una decisone resa, peraltro, necessaria dalla circostanza che proprio a Montecitorio, la mattina del 16 Marzo, si sarebbe dovuta tenere la discussione sulla fiducia al nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti. Governo, che per la prima volta dal 1947, si reggeva sull’appoggio, esterno ma determinante, del PCI di Enrico Berlinguer ( cosiddetto governo della non-sfiducia). Invero, alla costruzione della nuova maggioranza, Aldo Moro aveva dedicato nei mesi precedenti al sequestro ogni energia, sfidando quanti nella DC erano ostili all’idea del Compromesso storico. Un accordo questo che, facendo convergere le forze cattoliche, laiche e socialiste su un’unica piattaforma programmatica, spianava la strada a una rivoluzione copernicana della politica italiana, ferma da troppo tempo alle liturgie dell’immediato dopoguerra. La svolta, tuttavia, non piaceva a molti e ciò procurò  a Moro diverse critiche ( fra cui quella di usare un linguaggio oscuro per non fare comprendere le sue reali intenzioni) e suscitò parecchie preoccupazioni. A Washington, in particolare, qualcuno fremette alla notizia di un’imminente entrata dei comunisti al governo. E al riguardo sono ormai note  le minacce che Henry Kissiger, Segretario di Stato Usa, rivolse a Moro in occasione del suo viaggio nella capitale americana. Tale evenienza ha poi alimentato le speculazioni successive  su un presunto coinvolgimento degli Usa nel sequestro. Dubbi avvalorati  dalla presenza sul luogo della strage di uomini dei servizi impegnati nell’operazione Gladio ( Stay Behind), operazione che aveva come obiettivo il contrasto al comunismo nei paesi della Nato. Una circostanza questa che non fu smentita mai da nessuno, nemmeno dai terroristi che presero parte al sequestro. Misteri che si addensano nei 55 giorni successivi al rapimento e che, ancora oggi, a 45 anni dalla morte dello statista democristiano, animano il dibattito pubblico. Come la scomparsa della valigetta personale di Moro, prelevata da qualcuno in Via Fani e occultata senza che ve ne rimanesse traccia. Cosa contenesse la valigetta non è, purtroppo, dato saperlo, ma probabilmente vi erano indizi idonei a compromettere la posizione di più di una persona. Una sorte analoga è poi toccata al famoso memoriale di Moro, rinvenuto dai carabinieri del generale Dalla Chiesa nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso, a Milano, nell’autunno del 1978. Il memoriale, muovendo accuse ben precise verso alcuni dirigenti democristiani, è scomparso nel 1978 per poi riapparire, parzialmente, nel 1990, anno della scoperta di Gladio. Proprio l’organizzazione, che è spesso richiamata nella vicenda, ha contribuito a infittire i misteri sul ruolo giocato da alcuni apparati dello Stato nella pianificazione del sequestro. In particolare, a destare scalpore,  fu la presunta seduta spiritica, svoltasi in una abitazione romana, in cui venne indicato il nome della prigione di Moro. In tale esoterico contesto venne pronunciato la parola Gradoli, una località situata nel viterbese. Sfortunatamente, si apprenderà solo dopo, Gradoli non indicava la città, ma l’omonima via di Roma, che fu fino al 18 Aprile del 1978 la prigione di Aldo Moro. Una via divenuta da quel giorno universalmente nota come la via delle spie, crocevia di tutte le trame oscure che ormai da decenni attraversano la vita del Paese. Un riferimento quello alle spie dovuto alla presenza in quel luogo di molti appartamenti affittati a membri dei servizi segreti (fra cui alcuni affiliati a Gladio). Sempre questa, secondo le successive indagini degli inquirenti, avrebbe avuto importanti collegamenti con una scuola di lingue di Parigi: l’istituto Hyperion. La scuola, fondata nel 1977, fu a lungo ritenuta un centro di formazione culturale marxista per i terroristi rossi di mezzo mondo. In verità, come emerso in seguito, L’Hyperion era, con molte probabilità, una centrale di coordinamento della Cia per le operazioni in Europa. Secondo poi il capo della colonna romana delle BR, nonché assasino di Moro, Mario Moretti, la pianificazione del sequestro sarebbe avvenuta proprio qui e per motivi che restano, ancora oggi, in gran parte ignoti ( come oscuro è il ruolo avuto da Moretti nella vicenda). Senza ombra di dubbio, però, assumendo come presupposto che molti interrogativi sul caso Moro resteranno insoluti, è appena il caso di fare qualche riflessione su quanto accaduto più di 40 anni fa. Sotto il profilo dell’analisi storica, l’intuizione di Moro andava nella giusta direzione, ovvero quella di superare la democrazia bloccata, cercando convergenze parallele con il Partito Comunista. Un’idea che, oggi si può pacificamente affermare, precorse i tempi, favorendo la nascita vent’anni dopo dell’Ulivo e poi del PD. È tanto più innegabile che Moro vedesse come prossimo al crepuscolo il sistema politico della sua epoca e di come egli, prima di Tangentopoli, avesse messo in guardia il suo partito, La Democrazia Cristiana, dai rischi di un’amministrazione del potere pubblico poco trasparente. Un richiamo alla sobrietà dei costumi che è stato al centro anche del dibattito sulla questione morale di Enrico Berlinguer. Un richiamo rimasto inascoltato, ma che nella notte della Repubblica di Mani Pulite, si è dimostrato oltremodo profetico. E si sa che le profezie hanno il difetto di farsi apprezzare solo dopo che si sono tragicamente avverate.

Chiamata da Hanoi

Il 1969 è stato un anno unico e sotto molti aspetti irripetibile per il gran numero di scoperte che hanno influenzato il cammino dell’uomo verso il progresso. Un’avanzata a tratti inesorabile, che ha visto l’uomo primeggiare su tutte le altre specie viventi presenti sul pianeta ed estendere i confini della propria scienza al di là del tempo e dello spazio terrestre. Il 1969 verrà, infatti, ricordato universalmente come l’anno dell’arrivo dell’uomo sulla Luna, della conquista definitiva dello spazio da parte di esso dopo anni di prove ed esperimenti. Una conquista che ha significato molto per il trionfo della scienza e dell’ingegno umano, ma che ha anche coperto fatti eminentemente negativi, verificatosi proprio in quest’anno. Se da un lato gli Stati Uniti vincevano la guerra con i russi, accaparrandosi l’ultima frontiera dell’esistenza umana, dall’altro essi si ritrovavano a combattere in Vietnam una guerra da molti ritenuta crudele, insensata e inutile. Un conflitto che, oltre ad avere spazzato via tante giovani vite e i sogni di un’intera generazione, ha creato ferite profonde nella società americana per il modo in cui è stata condotta. Basta pensare che, proprio il primo dicembre del 1969, a fronte del costante aumento delle vittime fra civili e militari, l’amministrazione  Nixon, per ingrossare le fila dei soldati da inviare in Vietnam, inventò un nuovo sinistro sistema: l’estrazione a sorte. Secondo la nuova norma, infatti, i militari di leva venivano sorteggiati in base alla loro data di nascita e inviati in guerra a prescindere dalla razza, dall’età, dalla religione e dallo status sociale. Inutile dire che questo sistema, da molti ritenuto più equo rispetto alle modalità di selezione tradizionali, fu  duramente contestato da una parte consistente della popolazione, contraria già di per sè al coinvolgimento bellico degli Usa in Vietnam. Coinvolgimento che durava ormai da anni e che aveva visto, dopo il ritiro dei francesi dalla penisola vietnamita, un progressivo incremento della presenza americana nella regione allo scopo di contrastare l’espansione comunista nel sudest asiatico. Fu proprio per tali motivi che la protesta non tardò ad organizzarsi, dando vita a un movimento destinato a entrare nella storia non solo americana, ma del mondo: il Movimento del “68”. Tale ribellione allo status quo si propagò rapidamente dalle università e, in breve tempo, contagiò tutto il Paese,  superando l’Oceano, in nome di un nuovo paradigma sociale, figlio della dottrina della non violenza gandhiana. Fu così che la società americana si ritrovò divisa in due, con manifestanti che aumentavano di giorno in giorno in proporzione alla crescita dei morti in Vietnam. La roulette russa, così era stata chiamata la lotteria per il Vietnam, provocò vivaci e violenti scontri di piazza in cui si bruciavano le cartoline di convocazione dell’esercito, le bandiere a stelle e strisce e si gridavano slogan contro un governo che rappresentava un’America imperialista e guerrafondaia. Per sfuggire all’inferno vietnamita molti giovani non esitarono a espatriare in Canada o ad arruolarsi nella Guardia Nazionale, convinti che quello sarebbe stato l’unico corpo militare a non essere obbligato ad andare a combattere in Asia. Tuttavia, malgrado un forte dissenso verso la guerra, in Vietnam i morti erano migliaia. Alla fine del 1967 i morti fra le fila dell’esercito Usa erano più di 11.000, una cifra che si andrà ad assommare ai 58.272 conteggiati al termine del conflitto nel 1975. Una cifra che ciò nonostante non tiene conto delle  altre vittime, ovvero i tanti soldati tornati a casa traumatizzati e che non hanno trovato una nazione che li ha accolti, ma al contrario li ha spesso respinti, favorendone l’emarginazione e quel che peggio la messa al bando. Una condizione quest’ultima che ha accomunato tutti quelli che hanno avuto modo di subire l’orrore della guerra. Lo stesso trattamento fu riservato da noi in Italia ai reduci della Grande Guerra e per certi versi anche a quelli dell’Iraq, specie dopo l’attentato di Nassiria. Verrebbe da dire che questi sono gli effetti collaterali del troppo amore, di chi ama cioè così tanto la pace da non rendersi conto, trasformando un’idea in principio, di ferire chi la guerra non l’ha voluta, ma l’ha subita. Probabilmente è invece vero il contrario, ossia che in guerra non esistono né vincitori né vinti, ma solo vittime. E nel caso specifico del Vietnam, come disse Oriana Fallaci, le vittime sono quelle migliaia di ragazzi fra i 18 e i 30 anni eliminati dalla faccia della terra nel pieno della loro gioventù.

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