L’Ultima Primula Rossa

Per decenni la sua figura, enigmatica e sfuggente, è stata al centro dei principali notiziari italiani. Di lui rimaneva solo una voce, impressa su un nastro registrato, e delle vecchie foto, ingrigite dal passare del tempo. Ora, invece, Matteo Messina Denaro è uscito dall’ombra e ha smesso di essere un fantasma. Le immagini del suo arresto hanno fatto il giro del mondo, consegnando alla giustizia “l’Ultima Primula Rossa” di Cosa Nostra. A tradirlo è stata la malattia, che lo ha costretto a recarsi in clinica per beneficiare di un particolare trattamento chemioterapico. Celandosi sotto il falso nome di Andrea Bonafede, i carabinieri del Ros lo hanno osservato per mesi, seguendo l’elenco delle prestazioni sanitarie da lui richieste. Un dettaglio non da poco, rivelatosi più che sufficiente a decretare la fine della sua lunga carriera criminale. Una carriera iniziata più di trent’anni fa, ai tempi delle stragi di mafia, e che è proseguita fino all’altroieri, nel più totale anonimato. Dalle prime indiscrezioni, pare che “U Siccu” non abbia mai abbandonato la sua Castelvetrano. Un fatto sul quale stanno ora indagando gli inquirenti, al fine di ricostruire quella fitta rete di relazioni che ha favorito la latitanza del padrino. A Mazara del Vallo, ultima residenza del boss, sono stati arrestati ieri il suo medico di base e il vero Andrea Bonafede, il quale ha rivelato agli investigatori di conoscere e stimare personalmente Messina Denaro fin da bambino. Rapporti umani, dunque, che il figlio di Ciccio Messina Denaro ha coltivato sapientemente in tutto questo tempo, permettendo a Cosa Nostra di evolversi e cambiare pelle. A differenza di Riina e Provenzano, “Don Matteo” ha tagliato i ponti con la vecchia mafia agreste, non disdegnando il lusso e il potere. Grazie a lui si è ulteriormente saldato quell’asse fra crimine organizzato, borghesia mafiosa ed economia grigia, costituente il cosiddetto “Terzo Livello” di tutti gli affari sporchi italiani. Non è riuscito, tuttavia, ad evitare il declino di Cosa Nostra degli ultimi anni, il cui dominio è sempre più insidiato dall’emergere di nuove e più pericolose organizzazioni. In primis la Ndrangheta, che da tempo ha tolto alla mafia siciliana il monopolio del traffico di droga. In virtù degli stretti legami che ha avuto con la massoneria, è anche ritenuto l’uomo dei misteri. Soprattutto, per i tanti segreti che custodisce e che periranno con lui. Fra tutti, quelli relativi alle stragi degli anni 90 e alla presunta trattativa con lo Stato. Non per niente, fu a lui e a Brusca che Riina commissionò alcuni dei più aberranti omicidi di quel periodo. Dalla strage di Via d’Amelio a quella di Via dei Georgofili, dalla bomba inesplosa allo Stadio Olimpico fino agli omicidi del piccolo Giuseppe Di Matteo e di Antonella Bonomo, sono tanti i delitti di cui si è reso autore o partecipe. Ciononostante, proprio Totò “U Curtu”, prima di morire, lo aveva disconosciuto. I suoi metodi troppo indulgenti verso lo Stato, unitamente alla sua riluttanza a regolare i conti con le armi, avevano ultimamente suscitato un certo disappunto fra i membri più ortodossi della cupola palermitana. Tanto da legittimare il sospetto di un possibile cambio della guardia ai vertici dell’organizzazione . Del resto, come diceva Giovanni Falcone, ella è un fenomeno tipicamente umano, con liturgie non dissimili da quelle di una qualunque altra società. Al pari, è anche gattopardianamente in perenne trasformazione. La sua esistenza è, infatti,  immanente a quella della comunità nazionale e, per certi versi, ne accompagna i cambiamenti. Fortunatamente, però, qualcosa negli ultimi decenni è cambiato e si sta perdendo il concetto di mafia quale cancro endemico della società. l’organismo statuale ha sviluppato degli anticorpi sempre più forti contro questo male iniquo della nostra terra. Malgrado non possa dirsi sconfitta definitivamente con l’arresto di Matteo Messina Denaro, Cosa Nostra manifesta evidenti segni di decadenza. L’emergere del fenomeno del pentitismo, inaugurato da Tommaso Buscetta, ha permesso di comprendere meglio certe dinamiche interne all’organizzazione e di prevenire la commissione dei reati. La maggiore consapevolezza dei cittadini siciliani riguardo ai propri diritti ha, inoltre, consentito lo sviluppo di quella cultura della legalità che la mafia teme come la peste. Nondimeno, a prescindere dall’euforia del momento, da adesso inizia per lo Stato una nuova battaglia. Con l’arresto di Messina Denaro si è certamente chiusa l’epoca della mafia stragista, ma non di quella degli affari. Un sistema che, inquinando l’economia sana, produce più danni del piombo delle pistole, al quale preferisce sempre più sorrisi pacati e vellutate strette di mano.                                                                                              di Gianmarco Pucci

Veleni in Vaticano

Pare ormai evidente che la stagione dei veleni non si è ancora spenta aldilà del Tevere. Le ultime scottanti rivelazioni sugli affari del cardinale Becciu, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi, tornano, infatti, ad agitare i palazzi pontifici, seminando zizzania e discordia. Ciò, peraltro, proprio in coincidenza dell’inizio del nuovo anno liturgico, che per i cristiani rappresenta da sempre un momento di fiducia e speranza. Invece, le parole del porporato, intercettate dalla Guardia di Finanza di Oristano, nell’ambito dell’inchiesta che lo vede indagato per peculato e abuso d’ufficio, piovono come un fulmine a cielo sereno su tutta la comunità dei fedeli. Nelle sue conversazioni con amici e parenti, il cardinale non lesina critiche al Papa, accusandolo di volere finanche la sua morte. Tale astio sarebbe scaturito dalla decisione del Santo Padre di sospendere Becciu da tutti gli incarichi per il suo coinvolgimento nell’omonima inchiesta vaticana. Secondo gli inquirenti, Becciu avrebbe approfittato della sua posizione per acquistare, a spese della Santa Sede, un immobile di pregio nel centro di Londra, avvalendosi della mediazione di alcuni faccendieri. Fra tutti, di Cecilia Marogna, già ribattezzata dalla stampa “La Dama del Cardinale”, la quale è sotto inchiesta dal 2021 per aver impiegato fondi vaticani per scopi estranei alla cura delle anime. La donna è accusata, infatti, di aver speso indebitamente denaro della Segreteria di Stato per pagarsi hotel e viaggi di lusso. Nondimeno, ella avrebbe beneficiato di tali fondi per portare a termine operazioni di “intelligence” in favore del Vaticano. In particolare, nell’inchiesta si fa riferimento al pagamento di un riscatto per la liberazione di una suora in Colombia. Una vicenda in cui sarebbero coinvolti non solo ecclesiasti e professionisti, ma anche il fratello e la nipote del cardinale Becciu. Per costoro, e per il sistema di potere che starebbe dietro al prelato, si sta, in queste ore, profilando un rinvio a giudizio per associazione a delinquere. Dal Vaticano non giungono commenti ai fatti, ma è evidente che essa deturpa gravemente l’immagine della Chiesa, più di quanto non avesse già fatto “l’affare Vatileaks”. Per certi versi, si potrebbe quasi affermare che la vicenda odierna continua quell’opera diabolica, prefigurando uno scandalo talmente ampio da non vedersene la fine. Anche allora( era il 2015) tutto cominciò con la diffusione, da parte dei “corvi” monsignor Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, di notizie riservate sulle spese della Santa Sede. Chaouqui, soprannominata “la Papessa” per il suo rapporto di fiducia con Balda, fu poi quella che materialmente informò i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, inaugurando lo scandalo e la conseguente inchiesta. La storia, come è noto, è stata narrata in due libri, scritti dai colleghi in ossequio alla vicenda che li ha visti direttamente protagonisti. Da lì in poi niente è cambiato, malgrado l’impegno di Papa Francesco a rinnovare profondamente la Chiesa. Al contrario, da quando Bergoglio è stato chiamato a succedere al soglio di Pietro, le lotte intestine nella Curia si sono intensificate. Una parte di essa non ha mai condiviso il suo impegno riformatore, rivolto a costruire una Chiesa vicina agli ultimi e ai sofferenti. Una Chiesa povera, ben presente nella riflessione teologica di Francesco e testimoniata anche da importanti gesti del Pontefice. Sotto il suo Magistero, infatti, si è assistito a una riduzione dei finanziamenti allo Ior, la potente banca vaticana, e a una diminuzione dei conti correnti presso di lei accreditati. Un evento che ha creato attriti con il collegio episcopale, ma che ha al contempo contribuito a migliorare la percezione pubblica della Chiesa Cattolica. Particolarmente decisa è stata, inoltre, la presa di posizione del Sommo Pontefice contro gli abusi sessuali sui minori. In Australia, nel 2021, per la prima volta la Chiesa ha preso le distanze dai presbiteri accusati di pedofilia, chiedendo perdono alle vittime e accordando loro il risarcimento dei danni. Si comprende, dunque, perché Papa Francesco non sia amato negli ambienti conservatori della sua comunità ecclesiale e perché si torni sovente a parlare di scisma. L’idea di Chiesa Universale da lui professata è infatti antitetica al particolarismo di quei cardinali che predicano il perdono dei peccati, ma che poi si macchiano delle peggiori colpe. Essi, avvelenando la Chiesa con la loro corruzione, si pongono fuori da essa e in contrasto con quella vivente. Ovvero quella degli uomini, fatti a immagine e somiglianza di Dio, e non di Becciu e famiglia.                                                                                                                         di Gianmarco Pucci 

Halloween, un punto di vista critico

Come ogni anno, da quando è stata importata dall’America , la notte che precede la Festività di Ognissanti torna ad essere, anche nel nostro Paese, quella in cui si celebrano streghe e folletti. Figure ben presenti nel folklore popolare, ma che sono estranee alle nostre tradizioni cristiane e ai suoi valori fondanti. Al contrario, essendo la festa la diretta derivazione del Samhain celtico, essa tende a contaminare la cultura cristiana con quella pagana, aprendo un varco verso il mondo dell’occulto. Un rischio su cui la Chiesa si è espressa più volte, denunciando il pericolo della diffusione, specie fra i più giovani, di riti e pratiche magiche. Il primo, in tal senso, a intravedere questa minaccia fu Padre Amorth, noto esorcista da poco scomparso. Amorth, in consonanza con la dottrina della fede, non si espresse contro la festa quale momento ludico e di aggregazione fra i più piccoli, ma riguardo al messaggio che Halloween è suscettibile di veicolare. Un messaggio implicitamente anticristiano che, dissacrando il Culto dei Santi e quello dei Morti, tende inevitabilmente a esaltare il male e a negare la vittoria di Cristo sulla morte. Un pericolo, quest’ultimo, evidenziato anche da Papa Francesco, il quale nell’Angelus di domenica ha invitato i fedeli a recarsi ai cimiteri per rendere omaggio ai defunti e a non far vestire i propri figli da creature infernali. Inoltre, il Santo Padre ha disposto per la notte del 31 ottobre una veglia speciale presso la chiesa di Sant’Anna in Vaticano, proprio per allontanare Satana dalla Festa di Ognissanti. Un male, ha sottolineato il Cardinale Martini, immanente ad Halloween, pure per il carattere infinitamente relativistico e consumista della festa. Come, purtroppo, avviene anche per il Natale, sembra che le festività religiose siano più un’occasione per assediare i centri commerciali, moderne cattedrali del materialismo agnostico, che un momento di riflessione e di condivisione. Questo, inevitabilmente, favorisce la proliferazione di riti pagani, seppur sotto mentite spoglie. Il Samhain, infatti, era la tradizionale festa dedicata ai morti nelle antiche popolazioni anglofone. Essa veniva celebrata il 31 ottobre, coincidente con il capodanno celtico. Un periodo ritenuto straordinariamente fecondo per consentire, attraverso veri riti magici, il contatto fra i vivi e gli spiriti dei defunti. Era, inoltre, anche un momento per sovvertire le regole della tradizione, ospitando banchetti e compiendo atti di divinazione( come la cristallomanzia, l’arte di predire il futuro). Frequenti erano, poi, le pratiche orgiastiche, eseguite al fine di propiziare la fertilità dei raccolti. Secondo, infine, fonti rinascimentali, la festa era un modo per adorare il demonio, nella veste di un dio della morte identificato in Baal, demone mediorientale che nell’universo demonologico celtico assurge proprio a questo ruolo. Non vi sarebbero, invece, prove che durante la festa si perpretassero sacrifici umani o messe nere. Tuttavia, il rinvio che Halloween fa a simboli e oggetti magici, la rendono particolarmente insidiosa. Specialmente per le personalità più fragili che, familiarizzando con tali emblemi, potrebbero facilmente cadere vittima delle sette sataniche. Difatti, accanto a una magia, per così dire, innocua( magia bianca) ve ne è un’altra, la cosiddetta magia nera, che, nell’adorare Satana, induce i suoi affiliati a commettere reati, talvolta balzati agli onori delle cronache per la loro efferatezza( come l’assassinio di suor Mainetti a Chiavenna o il più noto caso delle “Bestie di Satana” a Varese). Ciò, per dirla con le parole di Don Aldo Bonaiuto, responsabile del servizio Antisette della Comunità Giovanni XXIII, descrive un mondo articolato, complesso e in continua evoluzione. Si calcola, infatti, che a causa del senso di smarrimento e solitudine indotto dalla Pandemia, l’attività di reclutamento da parte delle sette abbia conosciuto una crescita notevole( +40%). Tale fenomeno è direttamente proporzionale alla crisi della famiglia tradizionale, sempre più minacciata dall’avanzata di nuovi tipi di unione. In definitiva, possiamo dire che certamente non tutte le sette sono sataniche, ma sono tutte ugualmente diaboliche. E, per osmosi, lo sono tutte quelle ricorrenze che, come Halloween, inscenando un macabro carnevale dell’esoterismo, si prestano tacitamente a suggestionare le menti e a diffondere ridicole superstizioni.                                                                                                                                                                                 di Gianmarco Pucci 

Ombre russe

La scorsa settimana ha destato molto scalpore la notizia di presunti finanziamenti russi ad alcuni partiti politici europei. A rivelarlo, come è noto, è stato il Dipartimento di Stato Usa, il quale ha puntato l’indice verso quelle forze politiche sovraniste che da anni minano la compattezza dell’UE. Fra questi partiti, finiti nel novero dei sospetti, non vi sarebbero, fortunatamente, quelli italiani. Malgrado, infatti, le becere asserzioni contro l’Europa che abbiamo udito in questi anni, nessuno di essi avrebbe le casse colme di rubli. Ciononostante, questa notizia non dovrebbe essere presa alla leggera. Se non altro, perché getta un’ombra cupa sul futuro dell’Europa. Infatti, non può sfuggire come in ogni guerra, accanto ai combattimenti sul campo, troppo spesso finisce per prevalere una dimensione ulteriore, collaterale a quella che segue il corso degli eventi. Si tratta della guerra sporca delle spie, ovvero di quel tipo di guerra non convenzionale condotta per sottrarre informazioni e conoscere i punti deboli del nemico. Una guerra certamente meno edificante di quella ufficiale, ma altrettanto subdola e pericolosa, dove non ci sono grandi ideali, ma solo oscuri compromessi. Tale fattispecie era conosciuta fin dai tempi dei romani, ma ha raggiunto il suo apice solo nel secolo scorso. Emblematico, in tal senso, è stato il caso di  Mata Hari, famosa danzatrice olandese reclutata come spia dalla Germania durante la Grande Guerra. Ella, proveniente da una famiglia agiata della Frisia, venne assoldata dal console tedesco all’Aia, che la incaricò di sorvegliare le truppe francesi stanziate presso il teatro di Vittel. La sua eccessiva disinvoltura, tuttavia, destò da subito dei sospetti. Il controspionaggio francobrittanico era convinto fosse una spia e l’arrestò una prima volta già nel dicembre del 1916 a Falmouth, vicino Londra. A condannarla non furono però gli inglesi, ma i tedeschi, i quali denunciarono Mata Hari per tradimento, dopo che questa aveva rivelato al nemico la posizione di alcuni suoi sottomarini al largo delle coste del Marocco. Venne, dunque, nuovamente arrestata, processata e condannata a morte in Francia. Inutile fu il tentativo di chiedere la grazia presidenziale. Mata Hari venne giustiziata presso il castello di Vincennes, alle porte di Parigi, la mattina del 15 ottobre 1917. Una storia che si è replicata ai giorni nostri e che ha visto per protagonista un’altra donna, questa volta russa, riuscita ad eludere la sicurezza della base Nato di Napoli. Secondo la ricostruzione di Repubblica e dello Spiegel, che hanno seguito l’inchiesta, questa si sarebbe infiltrata circa un anno fa nel quartier generale dell’Alleanza Atlantica allo scopo di sottrarre informazioni riservate. Sfruttando le proprie frequentazioni di alcuni circoli mondani partenopei, la donna si sarebbe fatta assumere dalla Marina Usa e avrebbe spiato le conversazioni dei suoi vertici militari. Fonti americane riferiscono che la scoperta della spia sarebbe avvenuta casualmente, dopo che questa ha abbandonato la base per far ritorno in Russia, esibendo un passaporto del GRU, il servizio segreto militare di Mosca. Non è noto quali notizie possa aver appreso, ma è certo che l’episodio rappresenta la più grande operazione d’intelligence russa sul suolo italiano. Come, del resto, sempre in Italia è avvenuta la scoperta di un’altra spia al soldo di Mosca. Stiamo parlando, ovviamente, di Walter Biot, ufficiale della Marina italiana di stanza presso lo Stato Maggiore della Difesa. Secondo la magistratura militare, Biot avrebbe ceduto informazioni top secret ai russi per 5000 euro. L’ufficiale, già da tempo sospettato di intelligenza con Mosca, adesso rischia l’ergastolo per alto tradimento e la radiazione dalla Marina. Stessa sorte toccata a un suo collega francese, arrestato a Napoli nel 2020 dai servizi d’oltralpe con l’accusa di essersi venduto ai russi. Risulta, allora, evidente che, a prescindere dalle rassicurazioni degli Usa, il nostro Paese non è indenne da interferenze straniere. Lo dimostra il fatto che il tema della Russia sta agitando, come non mai, la campagna elettorale in corso. L’ambiguità di Matteo Salvini sui suoi rapporti con il partito di Putin e la vicinanza di Giorgia Meloni all’Ungheria di Viktor Orban suscitano, non a caso, dubbi e interrogativi sulla trasparenza di quanti ancora mantengono un contegno indulgente verso l’autocrazia putiniana. Quella stessa autocrazia che pur di salvare se stessa non esita a massacrare un popolo inerme e a ricorrere a tutti i mezzi pur di beffare le democrazie occidentali. Anche ad assoldare un esercito segreto di spie, capace di influenzare il corso di una guerra dagli esiti sempre più imprevedibili.                                                                              Di Gianmarco Pucci

C’era una volta l’America

Per lungo tempo è stata rappresentata come il faro della libertà, come la patria della democrazia e del capitalismo. Una terra giovane, florida e ricca di opportunità per chiunque avesse voluto approfittarne. Oggi, invece, gli Stati Uniti d’America sono ben lontani dai fasti del grande sogno che ne ha accompagnato l’epopea. Al contrario, essa è oggi una nazione smarrita, senza più un’identità e vittima delle proprie contraddizioni. Una frattura che attraversa trasversalmente la società americana e che ha raggiunto il suo apice il 6 gennaio 2021. Prima di allora, infatti, nessuno si sarebbe mai immaginato di vedere il Congresso, tempio della democrazia statunitense, assaltato da una banda di fanatici invasati. E, ancor meno, nessuno si sarebbe mai immaginato che ad istigarli potesse essere proprio il Presidente in carica. Un’accusa che Donald Trump ha sempre respinto al mittente, addebitando ai democratici la responsabilità dei fatti di quel giorno. Invero, a riprova della valenza traumatica di quell’episodio, la questione è tornata ad animare il dibattito pubblico americano. La nuova commissione d’inchiesta del Congresso, sta infatti tentando di fare luce sull’accaduto, indagando sul ruolo assunto dalla Casa Bianca in quelle ore. In particolare, si sta cercando di comprendere se l’assalto fu premeditato e che ruolo ha avuto in tutto questo l’ex Presidente. Dalle prove fin qui raccolte, sta emergendo un quadro accusatorio non favorevole per Trump. Membri dello staff del Presidente parlano apertamente di evento non spontaneo, orchestrato ad arte per sovvertire l’esito del voto, millantando brogli ed elezioni rubate. Lo ha affermato Jason Miller, portavoce del comitato per la rielezione di Trump, che ha raccontato di un Presidente ostinatamente convinto del furto elettorale. Lo ha ripetuto anche l’ex Ministro della Giustizia, William Barr, il quale ha bollato come “idiozia” il tentativo di Trump di capovolgere il voto. Eppure, nonostante tali dichiarazioni, Trump continua a negare, denigrando chi lo accusa e definendo “circo mediatico” la commissione inquirente. La sua reprimenda non risparmia nessuno, tantomeno i repubblicani che non gli manifestano fedeltà e obbedienza. Fra questi, adesso c’è Liz Cheney, figlia dell’ex Vicepresidente di George W Bush e membro della commissione d’inchiesta. Secondo Cheney, Trump è moralmente responsabile dell’assalto a Capitol Hill, avendolo avallato e giustificato. Ha, inoltre, richiamato i suoi colleghi ai propri doveri verso la nazione, smettendola di difendere l’indifendibile versione di Trump. Dichiarazioni pesanti, più che al vetriolo, che descrivono un Paese in cui la politica è sempre di più vista come lontana dal popolo e incurante dei suoi problemi. Un sentimento che serpeggia diffusamente fra la gente e di cui Trump ha approfittato. Egli, infatti, dietro la promessa di rifare grande l’America, ha invece perseguito, in ossequio al motto “dividi et impera”, l’obiettivo di spaccare ulteriormente gli Stati Uniti, mettendo tutti contro tutti. Bianchi contro neri, uomini contro donne, eterosessuali contro omosessuali, conservatori contro progressisti. In tal senso, il fenomeno trumpiano è una formidabile chiave di lettura per interpretare la becera regressione della civiltà statunitense. Imbarbarimento testimoniato anche dal moltiplicarsi degli episodi di violenza ai danni delle minoranze e che trovano il proprio comune denominatore nella crescita esponenziale del degrado nei centri urbani e nelle province. Emblematico, in tal senso, sono le esecuzioni sommarie di afroamericani da parte della polizia in molte città statunitensi. Omicidi dettati dall’odio razziale e che, come nel caso di George Floyd, niente hanno a che vedere con l’amministrazione della giustizia. A tal riguardo, proprio dopo i fatti di Minneapolis, si sono moltiplicate le denunce contro le violenze della polizia e sono sorti i primi movimenti spontanei di contrasto al fenomeno. Come, ad esempio, Black Lives Matter, movimento nato per opporsi al razzismo della polizia, attraverso denunce e pubblicazioni sui social di video o immagini che rappresentano, senza edulcorazioni, la brutalità degli agenti verso i neri e gli ispanici. Tuttavia, il seme della violenza, a quanto pare immanente alla società americana, è stato in questi tempi osservato anche in un altro senso. Lo scorso 24 maggio, infatti, la cittadina di Uvalde, in Texas, è stata teatro di una strage commessa, ancora una volta, ai danni di una scolaresca da parte di uno squilibrato. L’episodio ha riaperto il dibattito sull’eccessiva discrezionalità con cui negli Usa si permette a chiunque di dotarsi di un’arma da fuoco. Una tradizione che affonda le sue radici nella storia americana e che, essendo consacrata a livello costituzionale dal secondo emendamento, viene percepita da buona parte dei suoi cittadini come un diritto inviolabile o, per meglio dire, irrinunciabile. Ciononostante, il livello di indignazione raggiunto in seguito a questa vicenda, ha costretto la politica a decidere. In Senato, per la prima volta, si è raggiunto un accordo bipartisan sulla necessità di vietare l’acquisto di armi ai minori di 21 anni e ai soggetti pericolosi( cosiddette leggi “red flag”). L’accordo, solamente di massima, ha già infastidito la National Rifle Association, potente lobby delle armi Usa, la quale da sempre esercita pressioni a livello federale, finanziando leggi che consentono ai cittadini di armarsi liberamente. Una pressione, quella delle lobby sulla politica, che mette in luce un’altra vicenda critica della democrazia americana, ovvero la sua contiguità con il grande capitale. Una commistione che, in questi anni, ha acuito le distanze fra centro e periferia, peraltro influenzando l’esito delle ultime elezioni presidenziali. Da Obama in poi, questa schizofrenia istituzionale si è riproposta a più livelli e continua a replicarsi ancora. Ma, soprattutto, quello a cui si assiste ormai da tempo è alla compresenza di due Americhe, entrambe disilluse sul proprio avvenire e aggrappate ai resti delle proprie convinzioni. Due Americhe che, tanto per dire, invece di preoccuparsi della Guerra in Ucraina, preferiscono interessarsi degli effetti di essa sull’economia domestica( come l’inflazione). C’è, infine, un’altra America, ovvero quella di Hollywood che, dal caso Weinstein in poi, ha visto crescere il movimento Me Too, movimento di reazione alle molestie femminili da parte di divi e potenti del jet set. Da ultimo, a farne le spese è stato Johnny Depp, trascinato in tribunale dall’ex moglie Amber Heard, con un’accusa di molestie e maltrattamenti, rivelatasi in seguito falsa. A tal proposito, la Corte della California ha prosciolto Depp e condannato la controparte a risarcirgli danni per 15 milioni di dollari. Un verdetto non scontato, considerando quello che si vede negli ultimi tempi anche qui da noi in Italia, ma che rende oltremodo evidente quanto i problemi di oltreoceano finiscano per riflettersi anche in Europa, rinverdendo il vecchio motto per cui “se l’America piange, l’Italia non ride”.                                                                                                    Articolo di Gianmarco Pucci

La grande invasione

L’altro giorno, rientrando a casa mi è capitato di imbattermi in un’allegra famiglia di cinghiali a spasso fra le macchine parcheggiate sotto il mio palazzo. I simpatici ungulati, per niente intimoriti dalla mia presenza, mi sono passati davanti e si sono, finanche, messi in posa per una sublime foto ricordo( di cui sopra). Di per sé il fatto non sorprende, considerando che ormai da anni in molte zone di Roma, specialmente in quelle situate più a nord, i cinghiali sono diventati parte integrante del tessuto urbano. Tuttavia, aldilà di ogni facile umorismo, ciò che sta accadendo è segno di un problema ben più grave. Un problema che si intreccia con i decenni di cattiva amministrazione cittadina e, in particolare, con la questione dello smaltimento dei rifiuti. Una questione che è stata al centro, nel corso degli anni, di una vivace diatriba fra Comune e Regione e che non ha portato a nessun risultato concreto. Al contrario, dopo la dura presa di posizione del M5S sul termovalorizzatore della Capitale, il dibattito si è ulteriormente infiammato, causando tensioni fra il PD e i grillini. Infatti, l’attribuzione al Sindaco Gualtieri di poteri speciali per fronteggiare l’emergenza rifiuti, ha fortemente irritato il M5S romano, da sempre contrario alla realizzazione dell’opera. Opera che, secondo i pentastellati, stravolgerebbe il piano regionale e che avrebbe un impatto deflagrante sulla conservazione dell’ecosistema. Ambiente che, complice anche la deforestazione di vaste aree dell’agro e del litorale, è stato negli ultimi decenni messo a repentaglio dalla crescente speculazione edilizia. Ciononostante, dietro le continue incursioni dei cinghiali in città, si cela dell’altro. Il Ministero della Salute, infatti, ha firmato pochi giorni fa un’ordinanza in cui dichiara la zona rossa a Roma contro la Peste suina. Tale sindrome, fortunatamente non trasmissibile all’uomo, costituisce un’ulteriore chiave di lettura per interpretare ciò che sta accadendo in questi giorni nella Capitale. La malattia, infatti, apparterrebbe al genotipo africano, importato in Europa a causa degli scarsi controlli di sicurezza effettuati sulle carni suine provenienti dal Subsahara. Essa, complice anche la crudele e insensata pratica degli allevamenti intensivi, si è propagata qui da noi con enorme facilità, infettando dapprima i maiali e, infine, i cinghiali. Il virus, una tipica malattia virale, presenterebbe i classici sintomi di una febbre emorragica e provocherebbe negli animali infetti inappetenza, aggressività e disorientamento. Ciò spiega la massiccia invasione di questi giorni e i costanti avvistamenti degli animali vicino ai cassonetti della spazzatura alla ricerca di cibo. Da qui, la necessità avvertita dal Governo e dalla Regione, su pressione dei cittadini sempre più allarmati, di adoperarsi per porre un argine a questo fenomeno. Si è, pertanto, deciso  di affidare al Prefetto il compito di provvedere all’individuazione e all’abbattimento degli animali infetti. Inoltre, si è deciso di estendere la zona rossa anche ai comuni limitrofi a Roma, vietando il transito nei pressi delle riserve naturali. È importante in questa fase, ha dichiarato il Governatore Zingaretti, limitare la circolazione dei cinghiali nelle aree urbane, presidiando anche i varchi di accesso agli svincoli autostradali. Un compito questo che vedrà  presto all’opera la Regione, l’Anas e le associazioni ambientaliste locali. Tuttavia, nonostante l’incisività di tali misure, la Peste suina avrà pesanti ripercussioni sotto il profilo socio-economico. A partire dai danni alla filiera suinicola, che a causa del divieto di esportazione delle carni italiane verso l’UE si troverà a far fronte a una crisi gravissima. Crisi che si somma a quella già vissuta dal settore e di cui il costante calo delle vendite(-2,5% nel solo 2021), unitamente al rincaro dei prezzi delle materie prime, è indice indefettibile. Tuttavia, a preoccuparci maggiormente dovrebbero essere le ricadute sociali. L’insorgere, infatti, di nuovi patogeni, provenienti dal mondo animale e suscettibili di trasmettersi all’uomo, ci costringerà sempre di più a rivedere le nostre abitudini di vita. Abitudini che, alla luce di quanto già accaduto con il Covid, non sono più indiscutibili come credevamo.                                                                                                                             articolo di Gianmarco Pucci

Il prezzo della pace

Ha un prezzo la pace? Ma soprattutto riuscirà il mondo a rinunciare alla guerra o proseguirà verso la propria autodistruzione? A chiederselo, firmando insieme ad Albert Einstein il manifesto per il disarmo nucleare, fu nel 1955 il filosofo Bertrand Russell. Oggi, la stessa domanda è posta da Papa Francesco, il quale durante i riti per la celebrazione della Santa Pasqua è tornato a invocare l’immediata cessazione delle ostilità in Ucraina. Un conflitto che sta mietendo morte, distruzione e che fin dall’inizio ha suscitato la ferma condanna da parte del Santo Padre. Per Francesco è, infatti, scandaloso che si ricorra ancora alla guerra per affermare i propri diritti e le proprie pretese territoriali. Specialmente per gli orrori di cui ogni guerra è fonte inesauribile. Da qui, l’invito del Sommo Pontefice alla Comunità Internazionale affinché  si prodighi  per risolvere la crisi in atto, evitando ulteriori spargimenti di sangue innocente. Sangue che ormai ricopre interamente il Creato, essendo assai numerosi i conflitti che attraversano il Globo. Dalla Siria alla Libia, dal Sahel all’Afghanistan è un susseguirsi di battaglie che restituiscono il quadro, per dirla con le parole di Francesco, di una guerra mondiale a pezzi. Tuttavia, in tutta questa devastazione, il commercio e la produzione di armi non ha fatto altro che aumentare. Nel solo 2021, quindi ben prima dell’inizio della guerra in Ucraina, la vendita di armi è aumentata dell’1,6%, circa tre decimali in più rispetto all’anno precedente. Complice poi il deteriorarsi delle relazioni fra Europa e Russia, si è registrato un notevole incremento di importazioni di armi dagli Usa. Export che, secondo gli esperti, renderanno negli anni a venire il Vecchio Continente la santabarbara dell’Occidente. Tale corsa al riarmo( e ciò sta già accadendo) costringerà inoltre i governi ad aumentare la spesa militare, minando un equilibrio sempre più fragile. Soprattutto per l’entità delle armi e delle tecnologie impiegate. Come i missili ipersonici, capaci di viaggiare a una velocità cinque volte superiore a quella del suono e senza essere intercettati dai radar. Peraltro, tali missili di nuova generazione sono stati adoperati a marzo scorso, nell’ambito di una esercitazione in Australia da parte dell’Aukus ( alleanza militare fra Usa, UK e Australia). L’esercitazione, secondo il Financial Times, ha avuto come obiettivo quello di dissuadere le pretese espansionistiche di Pechino nel Pacifico orientale. Tuttavia, è evidente che si è voluto mandare anche un messaggio inequivocabile alla Russia. I due paesi, infatti, sono maggiormente uniti adesso che prima e ciò apre la porta a profondi cambiamenti geopolitici. Dovremo, quindi, come già accaduto con il Covid, abituarci a un nuovo tipo di normalità. Quotidianità che, oltre a sconfessare il mito della globalizzazione, risentirà nei prossimi decenni di un costante richiamo alla necessità di armarsi per difendere i propri interessi vitali. Sarà, allora, per questo motivo che il monito rivolto dal Papa al Mondo non può essere preso alla leggera. Sbaglia, difatti, chi intravede nelle parole del Pontefice una dichiarazione politica che strizza l’occhio ai pacifisti o, peggio ancora, ai sodali di Vladimir Putin. Più che altro, perché il richiamo del Santo Padre rischia davvero di restare un autentico grido nel deserto ignorato da tutti. Pertanto, in riguardo a ciò, non si può che convenire che in un mondo in cui la parola di Dio non viene più ascoltata, dove il fragore delle armi prevale sul dialogo fra le genti, la pace assume un valore decisivo. Un valore che non ha prezzo, perché si stima in ogni istante di ogni giorno della nostra vita.                                                                                                                                     Articolo di Gianmarco Pucci

Il fattore atomico

Con lo scoppio della guerra in Ucraina il mondo è tornato a fare i conti con i fantasmi del suo passato nucleare. Un incubo che credevamo aver sepolto con la Guerra Fredda, ma che è tornato ad aleggiare sull’Europa in tutto il suo sinistro splendore. Vladimir Putin ha infatti minacciato solo pochi giorni fa di essere pronto a tutto pur di tutelare gli interessi del suo paese da interferenze straniere. Anche a ricorrere alla soluzione finale, ovvero attivare le testate missilistiche nucleari. Missili che, come ha recentemente dimostrato l’Università di Princeton, se raggiungessero l’Europa provocherebbero la morte di almeno 80 milioni di persone in meno di un’ora. La minaccia al momento è rimasta lettera morta, ma è bastata per rianimare le nostre più recondite paure. La storia, infatti, come diceva Tucidide, tende a ripetersi, non conoscendo la follia umana confini. Un timore che fu condiviso anche da Einstein, il quale in una lettera indirizzata al Presidente americano Franklin D. Roosevelt denunciava il tentativo dei nazisti di produrre la prima bomba atomica. Nella sua lettera, il padre della relatività si diceva preoccupato del cattivo uso che poteva essere fatto di queste armi di nuova generazione. Armi che sfruttando l’effetto esplosivo della fissione nucleare erano in grado di annientare la vita nel raggio di molti Km dal punto d’impatto. Einstein concluse la sua missiva convinto che il mondo non avrebbe mai sperimentato a sue spese gli effetti di una deflagrazione nucleare. Tuttavia, solo pochi anni dopo( la lettera risale al 1939) la storia lo smentì clamorosamente. A Hiroshima, in Giappone, la prima bomba della storia venne sganciata la mattina del 6 Agosto 1945. I testimoni raccontarono di aver udito un boato assordante, seguito da un grande bagliore. La bomba esplose a 580 metri da terra, polverizzando il centro della città e provocando da subito centinaia di migliaia di vittime. Per effetto dell’onda d’urto, in una manciata di minuti, circa il 90% degli edifici crollò su se stesso e le fiamme divamparono attorno al luogo dell’esplosione. I giapponesi non fecero in tempo a gridare all’ira di Dio che lo stesso scenario si ripeterà solo tre giorni dopo a Nagasaki. Qui gli effetti del “fungo atomico” furono così devastanti da indurre il governo giapponese a firmare la resa con gli Usa. La fine delle ostilità non cancellerà, però, il ricordo dei tragici fatti di quei giorni. Da allora, infatti, tutti i governi mondiali si sono impegnati a garantire un mondo più sicuro e senza armi nucleari. Una promessa che è stata largamente disattesa dalle principali superpotenze e che ha favorito l’instaurarsi di un equilibrio della paura. Tale deterrente ha funzionato per decenni ed è sopravvissuto anche alla fine dell’Urss. Eppure, malgrado i trattati, gli arsenali nucleari non hanno fatto altro che crescere negli ultimi settant’anni. Ciò in vista di un possibile conflitto, biasimato da tutti, ma che tiene tutti allerta. Ora, con la crisi in Ucraina, sembra che qualcosa si sia inceppato. In tal senso, le immagini dei bombardamenti sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia da parte dell’esercito russo non lasciano spazio ad alcun dubbio. Mai come in questo momento il mondo rischia di precipitare verso un conflitto nucleare dagli esiti tanto imprevedibili quanto devastanti. Tuttavia, nelle ultime ore qualcosa su questo fronte è cambiato. Il forte impegno della comunità internazionale per trovare una soluzione alla crisi ucraina, ha infatti indotto i russi a tornare sulla strada del dialogo. Un dialogo ancora stentato fra le parti in conflitto, ma che allontana lo spettro di una guerra nucleare ai confini dell’Europa. Non è molto, ma è sufficiente per continuare a sperare nella pace.                                                                                                                                           articolo di Gianmarco Pucci 

Morire per Kiev

Ieri mattina all’alba è ufficialmente iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. L’assalto è stato preceduto, come da copione, da un discorso di Putin alla nazione, attraverso cui il leader russo ha annunciato l’intervento militare “speciale” nel Donbass. Al pari del comunicato dello scorso 21 Febbraio, Vladimir Putin ha legittimato tale atto di forza ribadendo la necessità di ripristinare l’ordine in quella che lui considera nient’altro che una provincia di Mosca. Una provincia ribelle che con le proprie pretese filoatlantiche, avallate dalla Nato e dall’Occidente, ha messo a repentaglio la sicurezza della Russia e dei suoi alleati. Almeno questo è quello che sostiene lui. Il capo del Cremlino ha, infine,  ammonito l’Occidente dall’ interferire nella crisi in atto, pena sanzioni mai viste prime. Avvertimento che non ha lasciato indifferenti le cancellerie occidentali, sempre più preoccupate da questa drammatica escalation militare. Per il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, Putin ha condotto l’Europa sull’orlo del baratro e ne pagherà le conseguenze con durissime sanzioni economiche. Dello stesso tenore le reazioni degli altri leader europei. A partire da Boris Johnson, che nel suo ultimo intervento alla Camera dei Comuni ha definito Putin dittatore e ha annunciato misure draconiane in grado di distruggere l’economia russa. Misure che sono al vaglio anche della Commissione Europea e che, come ventilato durante il vertice speciale del G7 di ieri pomeriggio, si preannunciano severissime. Tali sanzioni colpiranno tanto persone fisiche quanto persone giuridiche( aziende e asset strategici). A venire danneggiate saranno soprattutto le fabbriche operanti nel settore della difesa e delle nuove tecnologie. Settori strategici dell’industria russa e che, unitamente al blocco dei pagamenti col sistema Swift, impediranno alla Russia di accedere al credito e ai mercati occidentali. Ingenti danni si prevedono anche per il settore turistico, che a causa dello scontro in atto vedrà un restringimento dei visti per i paesi europei di oltre il 70%. Tuttavia, da questo primo pacchetto di misure è stata esclusa l’energia. Metà dell’Europa, infatti, dipende per circa il 50% del proprio fabbisogno energetico proprio da Mosca. Un problema che riguarda da vicino anche il nostro paese e che rischia di ripercuotersi nel lungo periodo sull’economia italiana. Per questo motivo nel Consiglio di ieri sera è stato deciso, dopo il blocco del gasdotto Nord Stream 2 da parte della Germania, di rinviare le sanzioni energetiche a un momento successivo, nella speranza che Putin retroceda dai suoi propositi guerrafondai. Una speranza che, però, diventa sempre più flebile con il passare delle ore. La morsa militare che cinge attualmente l’Ucraina infatti sembra andare nella direzione contraria a ogni soluzione diplomatica. Eppure, nonostante la strada sia molto stretta, la Russia non ha finora mai escluso di poter tornare a sedersi al tavolo dei negoziati. A condizione, però, che Kiev rinunci alla sua pretesa di entrare a far parte della Nato. In tal senso, l’invito rivolto ieri pomeriggio a Zelensky è suonato come un sinistro ultimatum rivolto dalla Russia all’Ucraina in vista della possibile capitolazione del paese. Debacle che sembra ormai essere nell’aria e che pone una domanda fondamentale: l’Occidente è davvero disposto a morire per Kiev? A giudicare dalle risposte giunte dalla Nato e dagli Usa sembra proprio di no. Per gli alleati, infatti, una guerra su vasta scala è possibile solo in caso di estensione del conflitto ai paesi dell’Europa Orientale membri della Nato( come la Polonia o i Paesi baltici). Uno scenario al momento surreale, ma che rende bene l’idea di come in questa guerra ad avere il coltello dalla parte del manico sia Vladimir Putin e non l’Occidente.                                                                                                                                                               articolo di Gianmarco Pucci

L’ inverno della famiglia

” Si è persa ormai la fiducia di fare figli e questa è una vera tragedia”. A dirlo è Papa Francesco nella sua lettera agli sposi, diffusa durante la giornata dedicata alla festa della Sacra Famiglia di Nazareth lo scorso 26 Dicembre. Il Santo Padre torna, dunque, dopo averlo già fatto in Amoris Laetitia, a parlare della famiglia e dei problemi che più la affliggono. E fra questi non può non esserci la diminuzione delle nascite che, secondo il Pontefice, starebbe generando un vero e proprio inverno demografico. Complice, infatti, il costante calo dei matrimoni e la crescente incertezza verso il futuro, molte giovani coppie si trovano costrette a rinviare il momento del concepimento. Esso è il dono più grande offertoci da Dio per realizzare quella comunione con lo Spirito Santo, iconograficamente rappresentata dalla notte di Betlemme. Eppure, nonostante ciò, l’Italia continua ad essere un paese con un tasso di natalità prossimo allo zero. Lo ha certificato anche l’ISTAT, il quale ha registrato un decremento del 2,5% delle nascite nel nostro paese rispetto al 2020( circa 12.500 bambini in meno per famiglia). A pesare, soprattutto, è il costo della crisi economica prodotto dalla Pandemia e l’aumento dell’aspettativa di vita media, che sta trasformando l’Italia in un paese di anziani. Parallelamente a tale innalzamento, aumenta anche l’età in cui le donne decidono di avere il primo figlio. Dai 28 anni del 1995 si è passati ai 32 anni come età media per concepire. Ulteriore nota dolente è, inoltre, il numero di figli per famiglia. In assenza di serie politiche a sostegno della famiglia, è sempre più alto il numero di nuclei con un solo figlio. Un fenomeno questo su cui si è soffermato anche Papa Francesco nell’Angelus di Domenica scorsa. Per il Santo Padre, infatti, tale scelta evidenzia la crisi profonda attraversata dall’istituto familiare. Un istituto sempre più minacciato dalle incomprensioni fra i coniugi e dal ricorso frequente al divorzio o alla separazione. Per Francesco, nella famiglia moderna manca quella interazione fra i suoi componenti in grado di trasformare il focolaio domestico in luogo dell’incontro e del dialogo. Un’attitudine che, a ben vedere, si è persa un po’ ovunque e che attesta, ancora più limpidamente, come la crisi della famiglia rispecchi la crisi della nostra società. Da qui l’invito del Papa alle giovani coppie a non nutrire risentimento gli uni verso gli altri e, soprattutto, a non stancarsi della vita coniugale, anche quando essa possa apparire gravosa o soffocante. Costruire una nuova famiglia significa, infatti, mettersi in gioco ogni giorno per trasmettere a chi verrà dopo di noi quegli stessi insegnamenti di cui siamo al contempo eredi e debitori nei confronti di chi ci ha preceduto. Un compito certamente non facile, essendo quello di istruire ed educare la missione più difficile affidata da Dio all’uomo, ma che reca con sé la più gratificante delle promesse: quella di vedere in un altro individuo la prosecuzione della propria opera e, in definitiva, della volontà del Creatore. Per questo motivo, non si può che accogliere l’appello di Sua Santità a fare di tutto per invertire la rotta e contrastare la galoppante recessione demografica. Essa è contro la famiglia, contro la patria e, infine, contro la vita. Se una società si rende sterile non vi può essere futuro. E senza futuro nessuna vita può dirsi degna di essere vissuta. Rammentiamolo sempre!

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