Chiamata da Hanoi

Il 1969 è stato un anno unico e sotto molti aspetti irripetibile per il gran numero di scoperte che hanno influenzato il cammino dell’uomo verso il progresso. Un’avanzata a tratti inesorabile, che ha visto l’uomo primeggiare su tutte le altre specie viventi presenti sul pianeta ed estendere i confini della propria scienza al di là del tempo e dello spazio terrestre. Il 1969 verrà, infatti, ricordato universalmente come l’anno dell’arrivo dell’uomo sulla Luna, della conquista definitiva dello spazio da parte di esso dopo anni di prove ed esperimenti. Una conquista che ha significato molto per il trionfo della scienza e dell’ingegno umano, ma che ha anche coperto fatti eminentemente negativi, verificatosi proprio in quest’anno. Se da un lato gli Stati Uniti vincevano la guerra con i russi, accaparrandosi l’ultima frontiera dell’esistenza umana, dall’altro essi si ritrovavano a combattere in Vietnam una guerra da molti ritenuta crudele, insensata e inutile. Un conflitto che, oltre ad avere spazzato via tante giovani vite e i sogni di un’intera generazione, ha creato ferite profonde nella società americana per il modo in cui è stata condotta. Basta pensare che, proprio il primo dicembre del 1969, a fronte del costante aumento delle vittime fra civili e militari, l’amministrazione  Nixon, per ingrossare le fila dei soldati da inviare in Vietnam, inventò un nuovo sinistro sistema: l’estrazione a sorte. Secondo la nuova norma, infatti, i militari di leva venivano sorteggiati in base alla loro data di nascita e inviati in guerra a prescindere dalla razza, dall’età, dalla religione e dallo status sociale. Inutile dire che questo sistema, da molti ritenuto più equo rispetto alle modalità di selezione tradizionali, fu  duramente contestato da una parte consistente della popolazione, contraria già di per sè al coinvolgimento bellico degli Usa in Vietnam. Coinvolgimento che durava ormai da anni e che aveva visto, dopo il ritiro dei francesi dalla penisola vietnamita, un progressivo incremento della presenza americana nella regione allo scopo di contrastare l’espansione comunista nel sudest asiatico. Fu proprio per tali motivi che la protesta non tardò ad organizzarsi, dando vita a un movimento destinato a entrare nella storia non solo americana, ma del mondo: il Movimento del “68”. Tale ribellione allo status quo si propagò rapidamente dalle università e, in breve tempo, contagiò tutto il Paese,  superando l’Oceano, in nome di un nuovo paradigma sociale, figlio della dottrina della non violenza gandhiana. Fu così che la società americana si ritrovò divisa in due, con manifestanti che aumentavano di giorno in giorno in proporzione alla crescita dei morti in Vietnam. La roulette russa, così era stata chiamata la lotteria per il Vietnam, provocò vivaci e violenti scontri di piazza in cui si bruciavano le cartoline di convocazione dell’esercito, le bandiere a stelle e strisce e si gridavano slogan contro un governo che rappresentava un’America imperialista e guerrafondaia. Per sfuggire all’inferno vietnamita molti giovani non esitarono a espatriare in Canada o ad arruolarsi nella Guardia Nazionale, convinti che quello sarebbe stato l’unico corpo militare a non essere obbligato ad andare a combattere in Asia. Tuttavia, malgrado un forte dissenso verso la guerra, in Vietnam i morti erano migliaia. Alla fine del 1967 i morti fra le fila dell’esercito Usa erano più di 11.000, una cifra che si andrà ad assommare ai 58.272 conteggiati al termine del conflitto nel 1975. Una cifra che ciò nonostante non tiene conto delle  altre vittime, ovvero i tanti soldati tornati a casa traumatizzati e che non hanno trovato una nazione che li ha accolti, ma al contrario li ha spesso respinti, favorendone l’emarginazione e quel che peggio la messa al bando. Una condizione quest’ultima che ha accomunato tutti quelli che hanno avuto modo di subire l’orrore della guerra. Lo stesso trattamento fu riservato da noi in Italia ai reduci della Grande Guerra e per certi versi anche a quelli dell’Iraq, specie dopo l’attentato di Nassiria. Verrebbe da dire che questi sono gli effetti collaterali del troppo amore, di chi ama cioè così tanto la pace da non rendersi conto, trasformando un’idea in principio, di ferire chi la guerra non l’ha voluta, ma l’ha subita. Probabilmente è invece vero il contrario, ossia che in guerra non esistono né vincitori né vinti, ma solo vittime. E nel caso specifico del Vietnam, come disse Oriana Fallaci, le vittime sono quelle migliaia di ragazzi fra i 18 e i 30 anni eliminati dalla faccia della terra nel pieno della loro gioventù.

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