Il Grande Freddo

È proprio il caso di dire che non esistono più le mezze stagioni. Quest’anno la Pasqua ha, infatti, portato con sé, oltre ai tradizionali riti religiosi, un freddo assai insolito per il mese di aprile. Si è praticamente passati da temperature miti, tipiche della primavera, con punte fino a 20 gradi, a temperature invernali, accompagnate da piogge e forti venti. Uno scenario che ricorda quello di fine gennaio, allorché a farci battere i denti erano stati i famigerati “Giorni della merla”. Per chi fosse ancora scettico, questa è una prova inconfutabile di quei cambiamenti climatici che minacciano in modo prepotente la sopravvivenza del nostro ecosistema. Cambiamenti climatici che proprio in questi giorni sono stati al centro di un’importante ricerca scientifica condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Chicago. Gli studiosi si sono, al riguardo, soffermati sul riscaldamento globale e sull’influenza di questo nello scioglimento dei ghiacciai in Antartide. Secondo essi, la diminuzione del ghiaccio marino a largo della costa antartica rischierebbe, ostacolando la circolazione termoalina, di ridurre la temperatura media della Terra. Ciò potrebbe renderci testimoni, nel corso di questo secolo, di una nuova glaciazione. L’arrivo del “Grande Freddo” sarebbe previsto, secondo gli scienziati, intorno al 2050, quando cioè la temperatura globale scenderà gradualmente di 2 gradi centigradi l’anno. Questo fatto, che a una prima lettura potrebbe risultare allarmante, apre certamente a scenari imprevedibili, ma non necessariamente catastrofici. Fenomeni simili si sono già verificati nei secoli passati, senza però condurre a un’estinzione di massa come quella avvenuta 10.000 anni fa. Per gli scienziati, un illuste precedente sarebbe da ricercare nella “Piccola Era Glaciale”, verificatasi nell’emisfero nord oltre due secoli fa. Tale glaciazione, molto diversa da quella verificatasi nel periodo precambriano, si protrasse dal 1430 al 1850 e si generò in un contesto meteorologico simile a quello odierno. Anche allora, dopo un lungo arco di tempo caratterizzato da temperature elevate, si vide il progressivo aumento dei ghiacciai, ritiratisi fino quasi a scomparire nei lustri precedenti. Gli inverni divennero più lunghi e freddi, con ghiacciate fino ai mesi primaverili di marzo e aprile. Spesso e volentieri arrivava anche a nevicare in piena estate. Proprio durante questo periodo accadde che molti grandi fiumi come il Po in Italia e il Tamigi a Londra ghiacciassero, rendendo percorribile a piedi la loro superficie in inverno. Nacque, addirittura, nei paesi del Nord Europa l’usanza di celebrare vere e proprie “fiere del ghiaccio”, che si svolgevano nel letto di fiumi completamente ricoperti da strati spessissimi di permafrost (tali, da reggere, ad esempio, il peso di un pachiderma). Ciò determinò, tuttavia, pure effetti negativi: il clima freddo favorì la distruzione dei raccolti con susseguenti e inevitabili carestie; le temperature eccessivamente rigide resero inabitabili interi villaggi e che vennero di lì a poco abbandonati; il proliferare di malattie come la peste e il vaiolo, per i quali allora non c’era ancora nessuna cura efficace, favorirono l’attività di maghi e alchimisti. Parallelamente al repentino diffondersi della superstizione, a fronte dell’incapacità della scienza del tempo di spiegare questo freddo anomalo, si assistette a una nuova caccia alle streghe, ree di aver stretto un patto con il demonio per seminare fame e distruzione in Europa. Tuttavia, nonostante tale mattanza ad opera dell’Inquisizione, La Piccola Era Glaciale si concluse da sola, allorché le temperature iniziarono nuovamente ad aumentare. Molte teorie sono state avanzate sulle possibili cause che hanno favorito l’avvento del Grande Freddo. Una prima teoria è precisamente quella fatta propria dagli scienziati dell’Università di Chicago, secondo cui sciogliendosi i ghiacciai abbasserebbero la pressione terrestre, incentivando la deriva dei continenti e influenzando il moto orbitale della Terra intorno al Sole. Ciò, deviando l’angolo di inclinazione dell’asse terrestre, causerebbe una ridotta incidenza dei raggi del Sole sul pianeta e quindi il raffreddamento dell’atmosfera. La seconda teoria riguarda propriamente l’attività solare. Nel corso di questi secoli, infatti, si è assistito a una riduzione delle macchie presenti sulla superficie solare. Tale indice di  abbassamento del livello di energia del Sole è stato osservato, in particolare, fra il 1650 e il 1715, allorché le macchie sparirono quasi completamente, dando luogo all’identificazione di questa fase geologica con il minimo di Maunder (dal nome di Edward Walter Maunder, l’astronomo che nel 1900 ha studiato il fenomeno). Oggi, secondo le ultime osservazioni effettuate dalla Nasa, sembra che lo scenario si stia riproponendo, registrandosi una diminuzione sensibile dell’energia solare. Suddetto fenomeno produrrebbe altresì un altro effetto degno di nota. la diminuzione dell’attività solare può, di riflesso, portare a brillamenti (tempeste solari) suscettibili di disturbare le onde radio e elettromagnetiche che viaggiano nella Ionosfera (volgarmente conosciuta come Etere). In tale circostanza non sarebbe nemmeno da escludere un vero e proprio blackout di tutte le comunicazioni radio dalla durata non preconizzabile. Pertanto, è evidente come se anche non ci si avvia verso la fine del mondo, dovremo negli anni a venire  rivedere radicalmente il nostro modo di vivere e il nostro rapporto con la natura. Una natura, che dopo decenni di profanazione rapace da parte dell’uomo, rischia di presentarci un conto molto salato e dagli esiti imprevedibili. Tale processo, come dimostrato dalla recente esperienza del Covid, è già in atto e non può che illuminarci sulla necessità di agire subito per scongiurare una catastrofe annunciata. In tal senso, l’inconcludenza dei dibattiti scientifici non garantisce la ricerca di una soluzione positiva al problema, ma al contrario alimenta dubbi e pregiudizi. Gli stessi che abbiamo visto all’opera nell’ultimo periodo riguardo ai vaccini e che, creando nuove false credenze, rischiano di riportarci ai tempi bui che furono, in ossequio al famoso motto per cui il sonno della ragione genera da sempre Infiniti mostri.

Partita a tre

Finita la festa, bisogna darsi da fare per rimettere insieme i cocci. Così, chiusasi la finestra elettorale di Domenica e Lunedì, ci si prepara all’ Autunno imminente, non senza tracciare, tuttavia, un sommario bilancio di quanto avvenuto pochi giorni fa. Analizzando i risultati di questa tornata elettorale, sorprende come tutte le principali forze politiche manifestino un certo entusiasmo per i risultati conseguiti alle elezioni amministrative e al referendum costituzionale. La vittoria sembra avere beneficiato tutti (o quasi) i contendenti di questa aspra campagna elettorale, elargendo generosamente i suoi doni in un momento così difficile come quello che il paese sta vivendo. In verità, se non ci si lascia abbagliare dalle apparenze, dall’ormai quotidiano esercizio di retorica che non esclude nessuno dagli onori della vittoria , emerge come tutti i partiti, pur vincendo, hanno in realtà perso qualcosa. Il M5S, ad esempio, ha rivendicato per voce di Luigi Di Maio il successo dell’esito referendario,  che realizza uno dei capisaldi del programma di governo del Movimento, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari italiani. Nelle parole di Di Maio non vi è , però, alcuna menzione del deludente risultato ottenuto dal Movimento nei territori, dove cioè il partito ha ulteriormente dimezzato i propri voti. L’ euforia rischia quindi di coprire quella che potrebbe facilmente tramutarsi in una crisi, pressoché irreversibile, del movimento fondato da Beppe Grillo. Una crisi identitaria, che passando attraverso una lenta agonia, diviene ogni giorno più chiara alla vista dei suoi esponenti e della base, giustamente in fermento per dei risultati elettorali  non certamente rassicuranti. Lo stesso Alessandro Di Battista, nel suo intervento su Facebook di qualche giorno fa, ha evocato come la mancanza di discontinutà nell’azione di governo potrebbe condurre alla fatale dissoluzione del Movimento 5 Stelle. Anche per quel che riguarda il risultato positivo del referendum sul taglio delle poltrone in Parlamento il M5S non può dormire sonni tranquilli. Infatti, è innegabile, come sempre Di Battista ha sottolineato, che non tutti coloro i quali hanno votato per la riduzione dei deputati e dei senatori sono elettori del Movimento 5 Stelle, avendo il quesito attirato intorno a sé una maggioranza trasversale di persone deluse dall’operato del Parlamento negli ultimi anni. Si comprende, allora ,perché nel movimento di Beppe Grillo è iniziata una fase decisiva per la sopravvivenza stessa del partito, sempre più diviso al suo interno fra chi desidera portare avanti l’esperienza di governo con il Partito Democratico e chi esprime perplessità riguardo alla linea politica fin qui protattasi. dall’ altro lato, quello del PD appunto, Zingaretti tira un sospiro di sollievo per essere riuscito a salvare dall’insidia leghista la Toscana e a mantenere la Campania e la Puglia. Quest’ultima, in particolar modo, era ritenuta a rischio, essendosi profilato giorni prima del voto un periglioso testa a testa fra Michele Emiliano e Raffaele Fitto. Se, dunque, il centro sinistra plaude allo scampato pericolo, essendo riuscito a conservare tre regioni su sette, il centro destra ritrova  una discreta spinta propulsiva per essere riuscito a strappare agli avversari le Marche e a tenere la Liguria con Toti e il Veneto con Zaia. Ma anche qui non ci si può esimere da qualche riflessione. La coalizione, se anche ha riscosso un notevole successo al nord, ha dimostrato di non reggere il confronto elettorale nel sud del paese, dove la proposta politica, forse anche per la riproposizione di personalità legate a vecchi apparati di potere, si è dimostrata non all’altezza della situazione. Inoltre , la vittoria nelle Marche di Fratelli d’Italia e di Luca Zaia in Veneto minacciano da molto vicino la leadership di Matteo Salvini. La Lega dell’attuale segretario ha infatti perso vistosamento consensi nell’ultimo anno e mezzo e ciò potrebbe, in un futuro non tanto lontano, portare a una sua sostituzione con Zaia, ormai visto da molti come la vera punta di diamante del Carroccio. Si evidenzia altresì  come il calo di consensi della Lega registratosi nell’ultimo periodo, sembrerebbe aver  favorito il partito di Giorgia Meloni, la quale secondo una percezione assai diffusa ha il merito di trattare le stesse tematiche care alla Lega ma in modo più pragmatico e concreto. In posizione minoritaria resta, invece, Forza Italia, interessata da una crescente riduzione del proprio bacino elettorale, segno del declino di Berlusconi e di ciò che resta della “Seconda Repubblica”. una partita  a tre, dunque, quella che si è giocata, senza né vincitori né vinti, che dovrebbe spingere tutti a interrogarsi sulla diffusa  e soprattutto sulla persistente sfiducia della gente verso la politica e i partiti. Una sfiducia resa manifesta dall’elevato numero di cittadini che ormai da anni disertano il voto, che non hanno neanche più la forza di indignarsi , che nella convinzione dell’immutabilità della condizione italica si ritrova avvinta ancora di più nella spirale della rassegnazione. Il M5S ha promesso che dopo il referendum si lavorerà a una nuova legge elettorale che reintrodurrà dopo anni le preferenze. L’iniziativa ha già fatto storcere il naso a molti nella maggioranza. Tuttavia, come in questi giorni ha ricordato anche il leader delle Sardine, Mattia Santori, una legge proporzionale che consenta ai cittadini di scegliere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento è quanto mai necessaria per ovviare agli effetti distorsivi che potrebbero inverarsi se i deputati e i senatori continueranno ad essere nominati dalle segretarie dei partiti.

Il giorno del giudizio

Finalmente il grande giorno è arrivato. Oggi e domani si vota, oltre che per il rinnovo dei Consigli in sette regioni e alcuni comuni, per il tanto atteso referendum sul taglio dei parlamentari. Si vota oggi dalle 7:00 alle 23:00 e domani dalle 7:00 alle 15:00. Il voto, che risuonerebbe nelle aspettative dei suoi più sagaci sostenitori come una specie di D-day per i nostri politici, descrive in realtà una situazione molto più complessa. Una vittoria del sì non sembra essere così scontata come ci si sarebbe aspettati mesi fa. Secondo, infatti, le ultimissime rilevazioni Il no sarebbe addirittura  in rimonta, seppure ancora sufficientemente lontano da quella che appare un improbabile vittoria. Tuttavia, quale che sia l’esito della consultazione referendaria, è certo che a fare la differenza  sarà il fattore numerico. Infatti, una vittoria non schiacciante del sì avrebbe(come già da alcuni pronosticato) importanti ripercussioni sugli equilibri in seno alla maggioranza di governo e renderebbe particolarmente difficile per il Movimento 5 Stelle intestarsi il successo della votazione. Se poi anche nelle regioni e nei comuni il risultato non dovesse arridere alla coalizione di centro-sinistra, è più di una certezza che si aprirà una fase di profonda riflessione riguardo alla felice continuazione dell’attuale esperienza governativa. Se d’altro canto il no vincesse, anche di stretta misura, in molti sarebbero pronti a chiedere le dimissioni dell’esecutivo e le elezioni anticipate, cogliendo proditoriamente la palla al balzo. è evidente, insomma,  che sia che vinca il no sia che vinca il sì , proprio coloro che hanno ispirato la riforma non potrebbero capitalizzare a loro favore il voto espresso dai cittadini, realizzando per questa via un autentico suicidio politico. A ben vedere è proprio questo il cuore della questione, perché chiamare il popolo a esprimersi ,in un momento come quello attuale, su un quesito meramente propagandistico, figlio della peggiore demagogia, non può  che confermare la miseria morale a cui è giunta la nostra classe dirigente. Di qui l’Inevitabile conseguenza che condannerà coloro che hanno suffragata  questa legge a restare vittime delle menzogne che hanno raccontato, non appena si paleseranno i suoi risvolti iniqui. Cosa aspettarsi, dunque, nell’immediato  futuro?sicuramente niente di buono se non che con la plausibile approvazione di questa pessima legge si contribuirà ancora di più a distruggere quello che i Padri Costituenti hanno edificato duramente. Non bisogna, comunque, credere che chi ha formulato la proposta legislativa ovvero il M5S sia l’unico responsabile di questo sfascio annunciato. Chi ha prima avvallato con il proprio voto in Parlamento tale legge per poi ripudiarla è corresponsabile di tutto ciò. È Sorprendente , infatti, come proprio in questi giorni fra le forze politiche ,che pure si sono schierate a favore del sì , si siano manifestati importanti distinguo e cambi di posizione, dettati il più delle volte da valutazioni meramente tattiche( del genere io voto no alla riforma non perché è errata, ma perché così contribuisco a accelerare la crisi di governo). In tale contesto, quindi, in cui la tattica prevale sulla strategia, in cui la forma prevale sulla sostanza, l’antipolitica trova terreno fertile e il populismo, nella sua  ingannevole ricerca del consenso, non può che prosperare, proseguendo nella sua ignobile opera di vandalismo istituzionale. Pertanto è doveroso , a modesto avviso di chi scrive ,votare no a questa “deforma” .Lo è per tre ragioni fondamentali che non bisogna stancarsi di ripetere. Perché è inutile in quanto senza un vero taglio degli stipendi, degli emolumenti e delle indennità varie non vi sarà alcun autentico risparmio in termini di costi della politica, ma si taglierà solo la democrazia parlamentare, che qualcuno forse considera ormai obsoleta in nome di un equivoco concetto di trasparenza. Ridurre la democrazia, infatti, a una semplice questione di costi è quanto mai pernicioso e eversivo, perché apre le porte all’arbitrio della maggioranza, al tanto peggio tanto meglio.Perché è una riforma confusa , partorita da una compagine di governo che non brilla per perizia e efficienza, ma il cui unico fine è la ricerca, quasi fideistica, del consenso, anche mentendo spudoratamente ai cittadini , nel timore di perdere i voti della gente che già da tempo ha smesso di credergli. Infine, perché è una riforma dannosa, non essendo accompagnata da alcuna riforma che migliori significativamente il lavoro delle Camere. Lavoro che non sarà snellito come si dice ma reso ancora  più gravoso senza una efficace riforma dei regolamenti parlamentari. A tal proposito, occorre smentire la favola raccontata da qualcuno secondo cui la riduzione garantirebbe la presenza assidua dei parlamentari superstiti, non essendo minimamente contemplata alcuna sanzione per gli assenteisti . Non migliorerà, inoltre,  la qualità degli eletti , perché  senza una riforma elettorale che permetta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti  ci si ritroverà con un Parlamento sempre più arroccato a difendere i propri privilegi e sordo alle esigenze degli italiani. Al riguardo, occorre ricordare che il M5S ha chiesto il ripristino del voto di preferenza,ricevendo reazioni tiepide da parte degli alleati di governo. Motivo per cui oggi votiamo una riforma che incide sulla quantità degli eletti senza alcuna certezza riguardo a un possibile miglioramento qualitativo di essi. Si evince pertanto come questa riforma sia un autentico salto nel buio e che nel dubbio, in mancanza di chiare evidenze, per evitare che i danni siano maggiori dei benefici prospettati è più che mai opportuno  respingerla.

La sesta estinzione

“Oggi, la natura che ci circonda non viene più ammirata né contemplata ma divorata”. A dirlo questa volta è Papa Francesco, durante l’udienza concessa Sabato scorso alla comunità Laudato sì, nata su impulso del vescovo di Rieti, Domenico Pompili, e di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food Italia. Il Santo Padre ha poi proseguito il suo ragionamento , evidenziando come esista un innegabile equivalenza tra consumismo, sete di profitto e mancanza di sensibilità verso il Creato.  Non è la prima volta che il Pontefice si ritrova a intervenire su questo tema quanto mai cruciale per la nostra stessa sopravvivenza e per quella del pianeta che abitiamo. Nell’omonima Enciclica del 24 Maggio del 2015, il Papa ha espresso i medesimi timori nei riguardi di una natura sempre più minacciata dal nuovo paradigma di potere mondiale, fondato su un capitalismo tecnologico assai prepotente e incurante dei grandi problemi del mondo come la fame, il debito dei paesi più poveri e la conservazione del nostro ecosistema. A conclusione della sua Enciclica, Francesco ha impiegato la metafora, molto efficace, della Terra resa come un immenso deposito di immondizia , che per essere ripulita necessita di politiche, nazionali e locali, di rottura verso lo status quo. Un esplicito invito al cambiamento radicale dei nostri stili di vita, dunque. È sicuramente vero, come hanno sottolineano in molti, che mutamenti simili richiedono tempo per produrre effetti duraturi, ma perché allora non iniziare già da adesso a invertire la rotta, immaginando un futuro diverso da quello che sembra oggi toccarci in sorte? perché non impegnarsi già da adesso nel favorire   questa transizione a un paradigma socio-economico più sostenibile, come sancito a chiare lettere dall’Accordo di Parigi del Dicembre 2015 e di cui il mondo ha disperatamente bisogno? ad esempio, per ciò che concerne il riscaldamento globale, è scientificamente accertato come la temperatura media della Terra è andata via via aumentando di circa un grado centigrado nell’ultimo secolo, producendo danni ingenti alle culture e all’allevamento soprattutto di quelle aree della Terra ancora legate a un economia agricola. Inoltre, l’aumento di energia accumulata nell’atmosfera è stata propriamente ritenuta la principale causa del verificarsi, sempre più frequentemente, di eventi meteorologici estremi(tifoni, uragani, sbalzi di calore e di umidità). Nonostante tali evidenze, c’è però chi si ostina a negare la rilevanza della questione, ritenendola un fake news, una menzogna costruita ad arte da eco-terroristi nemici del progresso e del benessere dell’uomo. Poco importa, pertanto, che la realtà dei cambiamenti globali sia già sotto i nostri occhi come si evince da alcuni dati: scioglimento dei ghiacciai, sia polari che di montagna, che si stanno gradualmente riducendo e mettendo a repentaglio la sopravvivenza di intere specie vegetali e animali(è notizia di oggi che stanno drasticamente diminuendo i parassiti nell’Artico, principale fonte di sostentamento di alcune specie a rischio di estinzione), con conseguente aumento della temperatura in tutto l’emisfero; innalzamento del livello dei mari, poiché il ghiaccio sciogliendosi fa aumentare il livello delle acque con progressiva sommersione delle terraferma( per non parlare dell’aumento del rischio di maremoti e terremoti a causa della sollecitazione delle placche tettoniche); acidificazione dei mari a causa dell’anidride carbonica che contamina le acque arrecando danni a molluschi, conchiglie e coralli; desertificazione, problema che riguarda da vicino i paesi del Mediterraneo come il nostro, dove l’aumento della siccità danneggerà  gravemente l’agricoltura e favorirà le migrazioni di uomini, animali e piante verso altitudini maggiori, causando temporanei scompensi negli ecosistemi( tipo invasioni di insetti e cavallette). infine, la diffusione crescente di agenti patogeni, suscettibili di aggredire prima le specie animali e le piante per poi passare all’uomo. Si è già verificato con l’importazione di alcune malattie delle piante come la Xyllela, definita dall’Académie d’agricolture de France come “la peggior emergenza fitosanitaria al mondo”, la quale ha pesantemente danneggiato in Italia e Grecia il raccolto degli olivi e di altre piante da frutto. Anche la pandemia da Coronavirus, originatasi da un Pipistrello e trasmesso all’uomo, è un sintomo tangibile di tali mutamenti in atto e del impatto sempre maggiore di questi sulla nostra salute. Dunque, proprio l’emergenza che stiamo vivendo dovrebbe fare risuonare nelle nostre menti un  campanello d’allarme sull’avvenire,non molto roseo in verità, che ci attende. Si avverte, infatti,  la necessità di intervenire, pervicacemente, per arrestare la crisi climatica prima che sia troppo tardi. Non c’è purtroppo quasi più tempo! chi continua a negare la verità si rende complice del più grande genocidio ai danni del genere umano, avviandoci verso quella che dopo l’ultima era glaciale rischia di essere la “sesta estinzione di massa”. Non si può ,pertanto, non condividere l’appello di Papa Francesco alla mobilitazione per salvare la nostra amata madre Terra, in perfetta sintonia con quell’insegnamento ecumenico di amore universale cristallizzato nella dottrina cristiana  dal Cantico delle Creature di san Francesco d’Assisi. Opera quest’ultima che andrebbe riletta non tanto per la sua indubbia bellezza stilistica ma per la profondità del suo messaggio, da cui si evince che noi siamo chiamati a custodire e rispettare il Creato senza alterarne la sua vitale funzione.

lo strano caso della Bestia del Gévaudan

Venerdì sera, su Iris, è andato in onda il Patto dei Lupi, film francese del 2001 di Christophe Gans con Vincent Cassel, Mark Dacascos, Samuel Le Bihan e Monica Bellucci. La pellicola, di fattura alquanto sciatta quanto a sceneggiatura e interpretazione degli attori, ha avuto, tuttavia, il merito di narrare, pur mantenendola sullo sfondo, la vicenda  realmente accaduta della Bestia del Gévaudan. La storia si colloca fra il 1764 e il 1767, nei boschi della regione della Francia centro-meridionale del Gévaudan, oggi incorporata nel dipartimento di Lozere, in Occitania. Le cronache locali del periodo riportano dei ripetuti attacchi, perlopiù rivolti verso le comunità di pastori che abitavano la zona, da parte di un animale particolarmente possente e feroce, simile nell’aspetto a un lupo. La Bestia fece la sua prima apparizione nel Aprile del 1764, ma la prima vittima, una pastorella di 14 anni, è di due mesi dopo, il 30 Giugno, e da allora i morti non hanno fatto che aumentare, rendendo gli attacchi dell’animale un’autentica piaga per gli agricoltori del luogo. A causa degli scarsi risultati da parte delle autorità locali nello scovare e uccidere la bestia, l’intendente della Linguadoca, l’avvocato di Mende M. Lafont, decide di informare Parigi, che invia il 12 novembre un distaccamento di 56 Dragoni comandati dal capitano Jean Boulanger Duhamel. Egli, nel suo resoconto al Re, descrive uno strano e sconosciuto ibrido, esteriormente simile a un lupo, ma della stazza di un vitello, talmente astuto da schivare costantemente le trappole dei cacciatori. Con il passare dei mesi, gli infruttuosi tentativi di cattura della belva e il costante aumento delle vittime contribuiscono a far nascere nella popolazione, complice il folklore popolare e la superstizione, il “Mito della Bestia”. In tutta la Francia non si parla d’altro. L’ opinione pubblica inizia a farsi domande sulla reale natura dell’animale e al riguardo iniziano a fiorire le più bizzarre teorie. L’avvento della fiera, infatti, risuona fra la popolazione come un duro monito divino rivolto al Sovrano per la sua indulgenza verso i filosofi illuministi. Costoro, professando il primato della ragione sulla fede, vengono sempre più visti come degli eretici dalla Chiesa, capaci di insinuare il dubbio riguardo l’autenticità del messaggio di Cristo ( tesi questa che viene riproposta anche nel film). A onor del vero, è storicamente accertato che Parigi, e in generale tutta la Francia, fosse in quel periodo assiduamente frequentata da agenti dell’Inquisizione, che riferivano a Roma di  tutti gli sviluppi implicanti il diffondersi del Culto dei Lumi. La vicenda, inoltre, a causa della crescente isteria collettiva, finì per suscitare interesse anche fuori della Francia. Sono in particolare i giornali inglesi a dare risalto alla notizia, nell’intento di schernire Luigi XV e il suo esercito. Per i britannici, i sudditi di Francia sono degli inetti, perché non sono capaci di fare la guerra così come non sanno abbattere un grosso lupo antropofago. Pertanto, Il Mito della Bestia invincibile, figlia del demonio e flagello divino, si rafforza ulteriormente e a scapito delle povere vittime. Per porre fine al terrore si assiste nelle campagne della provincia a una vera e propria mattanza di lupi da parte di semplici contadini, soldati e cacciatori dilettanti. Costoro, per riscuotere la ricompensa messa dal Sovrano, non esitano ad affermare di avere ucciso la temibile fiera, per poi venire smentiti puntualmente al verificarsi di ogni nuovo assalto. Prossimi ormai alla soglia delle 100 vittime, con l’animale che sembra avvicinarsi sempre di più ai centri abitati, Re Luigi XV decise di inviare nella provincia del Gévaudan il suo archibugiere personale, Antoine De Beauterme. Beauterme si reca sul posto con i suoi due figli e alcuni aiutanti. Anche il suo tentativo si rivela, però, un fiasco: egli riferì, il 18 novembre del 1765, di aver ucciso la Bestia, un lupo di oltre 100 kg dal folto pelo nero, immediatamente impagliato e portato a Parigi, nel plauso generale di una popolazione finalmente liberata dal flagello. Non fu, purtroppo, così in quanto la Bestia tornò a colpire un paio di settimane dopo. Un anno e mezzo dopo, un contadino di nome Jean Chastel, assistito dai suoi tre figli, uccide durante una battuta di caccia un grosso lupo e lo porta a Parigi per ottenere la ricompensa promessa. Non avendolo impagliato, la carcassa giunge già in avanzato stato di decomposizione, per cui è impossibile stabilire se l’animale ucciso dall’agricoltore è veramente la belva che ha terrorizzato le contrade francesi. Sta comunque di fatto che da allora, come per incanto, gli assalti cessarono del tutto. Restano però degli interrogativi su tutta la vicenda, soprattutto riguardo alla vera natura della Bestia. Era veramente solo un lupo ad agire o era presente negli omicidi, in qualche modo, la mano dell’uomo? le vittime erano il bersaglio privilegiato di una bestia sanguinaria o della furia assassina di una mente malata? alcuni studiosi, infatti, hanno ipotizzato che invece di un animale a colpire fosse un uomo ( un maniaco omicida sul tipo di Jack lo Squartatore o di Peter Stubbe, il cannibale di Bedburg), in virtù della particolare tipologia delle vittime, prevalentemente donne e bambini e quasi mai uomini adulti. Altri, ancora, hanno parlato di attacchi combinati di un branco di lupi e che solo l’isterismo collettivo ha trasformato in un unico e spietato carnivoro. Ciò trova conferma proprio analizzando le caratteristiche delle ferite e sulla quale concordano la maggior parte degli zoologi. Si è, infine, discusso di un lupo particolarmente grosso e vorace, in quanto affetto da Acromegalia ( malattia comune in uomini e animali e che provoca la crescita sproporzionata degli arti). Una tesi, quest’ultima, meno suggestiva rispetto a quella di coloro che dietro i fatti del Gévaudan ci vedono l’ombra di un complotto antilluminista, ma certamente più verosimile. In definitiva, quale che sia la verità riguardo allo strano caso della Bestia del Gévaudan, la vicenda dell’enigmatico criptide non potrà che continuare a stimolare le speculazioni degli scienziati e le fantasie dei registi, lasciandoci consapevoli su quanto molto crediamo di sapere, ma quanto poco in realtà sappiamo sulla natura e su i suoi più reconditi segreti.

Storie di ordinaria follia

Nella notte fra Sabato e Domenica, a Colleferro, piccolo comune a sud di Roma, si è verificato l’ennesimo , spiacevole fatto di sangue che ha visto per protagonista un giovane di poco più di vent’anni, rimasto vittima della violenza di un gruppo di coetanei. Il giovane ,Willy Monteiro Duarte,di origine Capoverdiana , è morto in ospedale in seguito ai calci e ai pugni ricevuti dai componenti del branco, posti in stato di fermo  dai carabinieri  subito dopo l’aggressione. Gli aggressori , non nuovi a episodi di violenza, non si erano mai spinti fino al punto di uccidere, sebbene chi in paese li conosce bene afferma che questa era una tragedia, purtroppo, annunciata. L’opinione pubblica si è in particolare scagliata contro i capi del gruppo,  i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, di 26 e 24 anni, conosciuti in zona per il loro temperamento brutale e per i loro precedenti penali( lesioni e spaccio di droga). Subito dopo la notizia del loro arresto, infatti, I social dei due fratelli sono diventati bersaglio di minacce e insulti, rivolte anche ai loro familiari e alla compagna di uno dei due, che fra l’altro è anche incinta. Odio chiama odio ,insomma, in un mondo sempre più interconnesso la realtà virtuale è diventato il luogo in cui si coagula la rabbia e si manifesta il lato più bestiale dell’animo umano. Ciò vale sia per gli assasini che per gli hater, che giudicano e condannano nascosti dietro una tastiera, omettendo di porsi, risucchiati nel vortice del proprio livore, due domande fondamentali: chi erano queste persone? Perché hanno fatto questo? Da ciò che si evince dai loro profili social, emerge il ritratto di una gioventù bruciata, figlia di una società malata la quale idolatra l’io in ossequio a un ideale estetico tanto effimero quanto feroce. Tatuaggi, palestra, macchine e vestiti firmati compendiano il desolante vuoto a perdere della vita di costoro, vite senza scopo per cui anche la violenza finisce per perdere significato. Ma in tutto ciò dove finiscono le loro colpe e iniziano le responsabilità della società che li ha allevati? Perché è certo che loro, rei di aver commesso il più atroce degli abominii, non sono sicuramente nati in questo modo ma lo sono diventati. In nome di un artificioso progresso negli ultimi decenni si è privato l’uomo dei suoi punti riferimenti, lo si è fatto diventare un automa che assorbe tutto ciò che viene propagandato dai Media e quindi anche i suoi modelli più volgari e diseducativi. Basta accendere la tv, ascoltare la radio o qualsiasi altra fonte di informazione per rendersi conto che la violenza  è ovunque, propagandata e amplificata fino alla nausea, fino a renderci insensibili al dolore. Homo homini lupus dicevano i Latini e questo è diventato propriamente il paradigma in cui si declina il nostro mondo. Infatti, senza più un principio etico e morale che lo guidi, senza più vincoli affettivi e familiari, l’uomo da essere razionale si tramuta in bestia,rendendosi reo delle più inaudite scelleratezze. In tale contesto , ciò che avvenuto a Colleferro non è altro che il sintomo di un male molto più complesso, una storia di lucida e ordinaria follia da cui traspare il ritratto di un umanità afflitta da un profondo malessere esistenziale. Malessere di fronte al quale l’uomo è sempre più impotente, smarrito perchè non in grado di percepire e quindi discernere ciò che è positivo da ciò che è per lui nocivo. È  in buona sostanza un problema culturale come ha sottolineato di recente anche Openpolis che, nell’analizzare le cause del disagio sociale , ha evidenziato come scarsa istruzione e povertà siano fra i principali fattori del degrado e dell’induzione al crimine. Il sonno della ragione genera mostri, dunque, e l’ignoranza è uno di questi e tocca allo Stato combatterla nel modo più efficace possibile. Difatti, sempre nello studio che è stato pubblicato si faceva appello alle Istituzioni affinché intervengano nel modo migliore  a ridurre le disuguaglianze sociali e a contrastare, con norme adeguate, la piaga dello spaccio di droga,  la quale ha assunto proporzioni spaventose nel nostro paese anche a causa dello sfruttamento di esso da parte delle mafie. Motivo quest’ultimo più che sufficiente per non sottovalutare il problema e per contribuire a  riaffermare ,cristianamente , la superiorità della forza creativa della vita su quelle che Fromm definiva  le pulsioni di morte.

I moti di Settembre

La storia, si sa, la scrivono sempre i vincitori, anche quando essa non rende il dovuto onore alla realtà dei fatti. All’indomani dello Sbarco dei Mille a Marsala, sostenuto politicamente dalla Dinastia sabauda, nessuno ha ricordato più le gesta di quanti, specialmente al sud, ben prima del 1860 si sono battuti per l’Unificazione italiana. È accaduto con la Rivoluzione siciliana del 1848, che ha segnato l’inizio di quel fervore patriottico che, sotto il nome di Risorgimento, ha risvegliato gli animi di un’intera generazione di europei. Ed è accaduto anche con riguardo ai moti del settembre del 1847, segno tangibile del contributo calabrese alla causa dell’Italia unita. Tutto inizia il 2 settembre, allorché il giovane patriota Domenico Romeo, natìo del paese di Santo Stefano in Aspromonte, si ribella al regime borbonico. Romeo, a capo di un manipolo di 500 seguaci, si impossessa rapidamente della città di Reggio Calabria, insediandovi un governo provvisorio presieduto dal canonico Pietro Pellicano. La rivolta, che mirava a deporre il governo del Re non ebbe, tuttavia, gli esiti sperati e non suscitò nell’animo della popolazione quello stesso ardore civile che animava i giovani patrioti. Infatti, l’insurrezione, che avrebbe dovuto espandersi anche al di fuori dei confini calabresi, finì per fallire a causa della mancata unità di intenti dei liberali meridionali. Fu così che dopo un primo momento di smarrimento, il governo di Francesco II di Borbone, Re del Regno delle Due Sicilie, organizzò una pronta e cruenta repressione ai danni degli insorti, conclusasi con l’assassinio e la decapitazione di Romeo. Era il 15 settembre, la rivolta era stata domata e la testa del capo dei cospiratori fu per ordine del Sovrano lasciata esposta per due giorni nel cortile del carcere San Francesco di Reggio Calabria. Un chiaro monito, quest’ultimo, rivolto a chiunque  avesse osato in futuro ribellarsi alla volontà regale. Il tentativo di Domenico Romeo non fu, però, l’unico moto rivoluzionario che interessò la Calabria durante il Risorgimento. Solo tre anni prima, infatti, i fratelli Attilio e Emilio Bandiera, ufficiali della regia marina  austriaca, appresa la notizia di una sollevazione popolare a Cosenza contro il Re ( guidata fra l’altro dal figlio di Pasquale Galluppi, noto filosofo calabrese al quale oggi è intitolato il liceo classico di Catanzaro), disertarono gli ordini e giunsero da Corfù in Calabria. Giunti alla foce del fiume Neto, i Bandiera con un manipolo di circa 20 uomini si diressero a Cosenza, dove nel frattempo le guardie regie avevano ripreso il controllo della situazione. Sfortunatamente il gruppo fu tradito da un compagno d’armi e i due fratelli, insieme a 7 loro compagni, furono fucilati a Rovito, alle porte di Cosenza. È evidente come il clima politico nella Calabria dell’epoca fosse tutt’altro che sereno. La regione aveva subito in prima persona le sanguinose vicende connesse all’instaurazione della Repubblica Partenopea del 1799. La successiva repressione organizzata dal Cardinale Ruffo, le faide fra giacobini e sanfedisti, fino ad arrivare alle campagne napoleoniche e alla restaurazione avevano lasciato il Mezzogiorno sospeso fra rispetto delle tradizioni e apertura alla modernità. Proprio in quegli anni, malgrado un’economia ancora legata alla terra, fortemente gravata dall’osservanza dei vincoli di derivazione feudale e dalla persistenza di un sistema basato sul latifondo, il Regno di Napoli intraprese una serie di riforme volte ad accrescere lo sviluppo economico del territorio. Difatti, nel 1861, al momento dell’Unificazione, il Regno presentava un bilancio in attivo di 35 milioni di Ducati ( pari a 560 milioni di Euro) e un livello di disoccupazione inferiore a quello degli altri Stati preunitari. Grazie all’unificazione del sistema monetario e alla creazione di un ingegnoso sistema di tariffe doganali, fu inoltre possibile favorire la crescita tanto del settore terziario quanto dell’artiginato. L’industria raggiunse proprio in quegli anni punte di eccellenza nella siderurgia ( le industrie di Pietrarsa vantavano un livello di prestazioni pari all’Ansaldo di Genova), nell’industria del ferro( emblematico il caso della Ferriera  di Mongiana, nei pressi di Serra San Bruno, dove si produsse per più di un trentennio ghisa e ferro) e in quella mercantile, la quale vantava una flotta che era la quarta al mondo per grandezza. Tutto ciò terminò con la deposizione della Dinastia borbonica e l’unificazione sotto il Regno sabaudo, che assorbì gran parte delle ricchezze del Mezzogiorno. La rapacità dei nuovi sovrani fu, quindi, vista come un tradimento di quegli ideali unitari per cui molti patrioti meridionali avevano sacrificato la vita. Questa percezione proseguì  nei decenni successivi e lo Stato fu sempre più visto come un oppressore, un dispensatore di tasse e balzelli, connivente con quelle “onorate società ” che riuscirono a imporsi come intermediari fra lo Stato e la popolazione, tra braccianti e proprietari terrieri. Ne nacque un fenomeno sociale, quello del Brigantaggio, che al grido di “sono secoli che abbiamo fame” non tardò a esplicitare la propria rabbia verso quello Stato che li aveva prima usati e poi abbandonati a se stessi. La risposta, come è noto, fu durissima: il governo emanò già nel 1863 la legge Pica, che lasciava carta bianca all’esercito di reprimere il fenomeno nel modo più rapido possibile, prescindendo da qualsivoglia implicazione etica o umana. I piemontesi, pertanto, mostrarono ben presto il loro vero volto, non meno feroce di chi li aveva preceduti e non più disponibile a barattare la cieca ragion di Stato con l’accoglimento di qualsivoglia istanza sociale. Per questo motivo, l’eco di tali fatti finì per offuscare a lungo il ricordo di quanti si batterono per l’Italia unita nel Mezzogiorno. Memoria storica che fu recuperata anni dopo solo grazie all’opera di intellettuali e studiosi del Risorgimento che per primi, in virtù della propria provenienza geografica, parlarono di una “Questione Meridionale” e delle implicazioni fra questa e le lotte patriottiche. Per merito di costoro si è progressivamente potuti arrivare ad avere una coscienza storica e civile comune, che rendono vivido ancora oggi il ricordo di quanti morirono per l’Italia moderna. Meritevole di nota è, in tal proposito, la lapide che ricorda i caduti di Gerace, morti proprio in conseguenza dei moti del settembre del 1847. Segno questo  ineludibile che a livello di idem sentire qualcosa è profondamente cambiato nell’animo dei calabresi negli ultimi 150 anni.

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