Cronaca di un mondo in guerra

“Questo gran silenzio quasi fa rumore, mentre fuori domina la notte..” così cantava Adriano Celentano in un suo famoso album del 2007, ribattezzato propriamente “La situazione di mia sorella non è buona”. Un titolo, a giusta ragione, profetico, visto che la condizione di nostra sorella ( la Terra) non è affatto delle migliori. La guerra, infatti, è tornata a minacciare la pacifica esistenza dell’uomo sul pianeta, spazzando via le sue certezze di vivere in un mondo sicuro e governato da leggi sacre e inviolabili. A partire dal 24 febbraio 2022, abbiamo sperimentato in prima persona la fragilità di tali convinzioni  e al contempo scoperto una nuova normalità. In breve, la Terza Guerra Mondiale a pezzi, tanto evocata da Papa Francesco, si è manifestata nitidamente ai nostri occhi, costringendoci a rivedere paradigmi che credevamo ormai consolidati. Come se non fosse già bastata la Pandemia, il proliferare dei conflitti nel globo sono arrivati puntualmente a destabilizzare il già precario equilibrio mondiale. Invero, unitamente alla perdurante crisi climatica e all’inesorabile avvento dell’Intelligenza artificiale, sono molteplici le minacce alla pace nei tempi bui che stiamo vivendo. In tal senso, il 2024 non poteva iniziare sotto più nefasti auspici. Dopo i tragici fatti di Gaza dello scorso 7 ottobre,  un nuovo fronte bellico rischia di aprirsi nel Mar Rosso. Solo poco tempo fa, i ribelli Houthi, che dal 2015 controllano gran parte dello Yemen, hanno attaccato ripetutamente i mercantili statunitensi in transito nel Golfo di Aden. I “Partigiani di Dio” hanno rivendicato gli attentati, promettendo nuove ritorsioni contro coloro che sostengono Israele nella lotta ad Hamas. Hanno, inoltre, ribadito che risponderanno prontamente alle aggressioni di Usa e Regno Unito, rei di aver pesantemente bombardato le basi dei ribelli in questi giorni. Invero, iniziative in tal proposito sono attese anche dall’Ue. Giusto ieri si è riunito il Consiglio europeo che, sotto la direzione dell’Alto Rappresentante Borrell, ha deciso, in accordo con Francia, Germania e Italia, di varare una missione navale per difendere i traffici marittimi fra l’Asia e il Vecchio Continente. Nessun paese, d’altronde, può dirsi al sicuro dalla minaccia proveniente dalle coste yemenite. Essa descrive chiaramente il presagio peggiore dall’inizio del conflitto in Medio Oriente. Ovvero, quello di un allargamento della guerra ad altre realtà regionali percorse dal fondamentalismo islamico. Oltre agli Houthi, rivoluzionari sciiti sostenuti e finanziati dall’Iran, nuovi focolai bellici si stanno risvegliando in Siria, in Pakistan e in Libano. Hezbollah, al riguardo, si è già detta pronta a rispondere agli attacchi di Israele, che è nuovamente tornato a colpire obiettivi sensibili nel sud del Libano. Tuttavia, anche fra gli alleati, voci critiche iniziano a levarsi verso la strategia difensiva fin qui adottata da Tel Aviv. A venire stigmatizzata è, soprattutto, la volontà di Nethanyahu di proseguire nella linea dura contro Hamas, negando ogni legittimità alla causa palestinese. Il primo ministro israeliano si ostina a ignorare la soluzione dei due Stati, per inseguire una vittoria personale nello scontro. Una vittoria che lo riabiliti agli occhi di un’opinione pubblica sempre più insofferente verso la sue scelte. Sempre ieri, i familiari degli ostaggi hanno fatto irruzione alla Knesset, denunciando il silenzio del governo sulle trattative per liberare i loro congiunti. L’episodio è avvenuto in contemporanea alla presentazione di una mozione di sfiducia da parte del Labour, che potrebbe fortuitamente porre fine al governo del leader più longevo della storia dello Stato Ebraico. Ciononostante, Bibi persevera nella sua condotta di autocrate. Forte dell’appoggio dello Shas, la destra religiosa, rifiuta ogni proposta di pace, incurante degli appelli della comunità internazionale per una tregua immediata. La stessa che da tempo si richiede per il conflitto in Ucraina e che per primo ha riportato la guerra al centro del dibattito internazionale. A quasi due anni dall’inizio delle ostilità, la Guerra nel Donbass non accenna a regredire, essendosi trasformata ormai in una guerra di trincea per il controllo di una sottile linea di terra. Al momento, le forze di Kiev stanno combattendo sul fianco orientale del paese, nei pressi di Bakhmut. Negli ultimi giorni, tuttavia, i russi hanno guadagnato sensibilmente terreno. Tanto che il ministro degli esteri russo Lavrov, intervenendo all’ONU, si è detto convinto che la Russia piegherà la resistenza ucraina, non appena l’Occidente smetterà di sostenere militarmente Kiev. Le speranze del regime di Mosca riposano, a ben pensare, su una non improbabile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali di quest’anno. Il Tycoon non fa infatti mistero di voler rivedere l’impegno degli Usa nell’Alleanza Atlantica. Del resto, sul tema, ha pubblicamente elogiato Orban per il suo rifiuto di inviare nuove armi a Kiev, promettendo di fare lo stesso se tornerà alla Casa Bianca. Per Trump, la difesa della democrazia non è qualcosa in cui gli Stati Uniti possono perdere né tempo né soldi. Al contrario, ha proditoriamente affermato che farà finire la Guerra in Ucraina in un solo giorno, suscitando scetticismo e pubblica ilarità. Invero, l’isolazionismo trumpiano sembra maggiormente congeniale alle mire di Vladimir Putin in Europa. Le recenti minacce del leader russo ai Paesi baltici sono un chiaro indizio della sua intenzione di muovere guerra alla Nato per conquistare il nostro continente. Un’ipotesi che spalancherebbe le porte alla Terza Guerra Mondiale e che alcuni danno già per probabile. Il ministro della difesa tedesco Pistorius ha chiaramente detto che, entro la fine del decennio, dovremo essere pronti a difendere il nostro territorio da una possibile aggressione russa. Ciò con buona pace di un’industria bellica che non conosceva tempi così floridi dalla fine della Guerra Fredda. Solo nell’ultimo anno, la produzione e la vendita di armi è triplicata e si prevede che aumenterà ancora negli anni a venire. Il ricorso all’indebitamento per finanziare le spese di guerra favorirà la contrazione dell’economia mondiale, restringendo lo spazio d’investimento delle imprese in settori non presidiati dall’intervento dello Stato. Inoltre, renderà i paesi schiavi del debito pubblico e ciò non potrà che accrescere, da ultimo, anche le diseguaglianze sociali. Pertanto, occorre ripensare celermente il sistema su cui si fondano le relazioni internazionali. A partire da una non più rinviabile riforma delle istituzioni sovranazionali, che in questo frangente hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza nel garantire la tenuta del sistema globale. È, altresì, necessario ridare impulso al progetto di unificazione europea, dotando l’Unione di un proprio esercito. Un esercito che, in ossequio agli ideali kantiani,  non sia permanente, ma stabilmente orientato a ricercare la pace fra le nazioni e disincentivare la corsa al riarmo. Occorre, infine, ripensare noi stessi. Per troppo tempo abbiamo tollerato l’odio e la violenza, convinti dell’intangibilità delle nostre libertà. La guerra nasce ogni volta che si da per scontata la pace e in questo la nostra inerzia è stata vieppiù colpevole. Pertanto, verrebbe da chiedersi, quanto siamo disposti a sacrificare di noi per sentirci ancora liberi? E, soprattutto, siamo disposti a combattere perché essa non ci venga definitivamente strappata via da qualche scaltro autocrate?                                                                                                      di Gianmarco Pucci

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