Inferno: viaggio nel profondo sud

Napoli, un paradiso abitato da demoni e, dopo di lei, specchio del male oscuro dell’Italia, la Sicilia, la Calabria e, infine, la Puglia. Un male oscuro che soffoca da sempre il Mezzogiorno e che gli impedisce di emanciparsi dalla sua condizione di moderno Inferno dantesco. Parallelismo ben presente nello storico saggio di Giorgio Bocca, intitolato per l’appunto Inferno, e che descrive, senza indulgere in velleitari entusiasmi, una realtà complessa, fatta di paradossi e di ambiguità. Scritto all’indomani delle stragi di mafia del 1992, Inferno sposa un punto di vista critico fino all’eccesso, raccontando in modo ruvido e diretto la piovra. Tuttavia, anche a causa della riconosciuta antipatia di Bocca per i meridionali, l’opera fallisce nel suo intento di offrire soluzioni al problema, escludendo qualunque possibilità di riscatto dalla piaga mafiosa. Un intento che, al contrario, ha animato, fino all’estremo sacrificio, l’azione di Giovanni Falcone. Per Falcone, di cui pochi giorni fa si è celebrato il trentennale della morte, la mafia è un fenomeno tipicamente umano e, come tale, con un inizio e una fine. Fine che, però, tarda ad arrivare. Anche a causa della  volontà, spesso assente, dello Stato ad impegnarsi per debellare questo cancro. Ma, soprattutto, per i torbidi legami fra Cosa Nostra, la politica e l’alta finanza che da tempo si sono saldati fra loro. Vincoli che rendono bene l’idea di come la mafia sia immanente alla società italiana e ne condizioni l’evoluzione dei costumi. Essa, infatti, nasce in Sicilia pochi decenni prima dell’unificazione italiana e, almeno agli inizi, presenta i caratteri tipici di una qualunque società segreta risorgimentale. Invero, come affermato nel rapporto di Pietro Ulloa, Procuratore del Re a Trapani, tali fratellanze hanno iniziato a diffondersi sul finire della dinastia Borbonica, presentandosi come vendicatori dei soprusi commessi dai nobili sul popolo. Non a caso, secondo il magistrato, tali sette nascevano in territori in cui la giustizia era amministrata in maniera primitiva e arbitraria da parte di chi deteneva il potere. Una caratteristica che ancora oggi identifica l’organizzazione mafiosa, quale società verticistica contraddistinta da un vincolo familistico e unitario fra i suoi appartenenti. Tuttavia, è con l’Unità d’Italia che si inizia a prendere coscienza del problema. Dopo la vittoria dello Stato sul brigantaggio, iniziano ad affluire al Ministero degli Interni rapporti allarmanti dei prefetti sulla situazione dell’ordine pubblico in molte province del Mezzogiorno. Di particolare importanza è il rapporto Sangiorgi, che per primo denuncia la presenza in Sicilia di un’organizzazione tentacolare, capillarmente diffusa su tutto il territorio e che, giovandosi dei legami di sangue fra i suoi affiliati, gestisce numerose attività illecite connesse al controllo dei pascoli o al contrabbando dei prodotti agricoli. Il rapporto contribuirà ad infoltire il materiale già raccolto dalla Commissione d’inchiesta del 1867, istituita dal Parlamento proprio per indagare sul problema. Dai verbali della Commissione si evince come non solo in Sicilia, ma anche in Calabria e Campania sussistano, pur con le dovute eccezioni, organizzazioni di questo tipo. Paranze di campieri, che in una società rurale come quella italiana, assurgono al rango di vassalli dei nuovi signori. Uomini che seguono, peraltro, una rigida deontologia( la cosiddetta regola dell’onore), quale fondamento di una psicologia pressoché impenetrabile dall’esterno. Tale codice d’onore , tuttavia,  è stato abbandonato dalla mafia a partire dagli anni “70”, successivamente all’insorgere del nuovo e fiorente traffico della droga. La droga, infatti, ha cambiato radicalmente la mafia, rendendola più spregiudicata. Ma, in particolare, essa ha permesso la definitiva sostituzione della vecchia mafia, devota a riti ancestrali, con la nuova mafia imprenditoriale. Una mafia, cioè, che trae la sua forza dalla collusione con gli apparati pubblici e che si avvale per i suoi affari della collaborazione con altre associazioni criminali. Come l’Ndrangheta in Calabria, che da tempo ha scavalcato Cosa Nostra in termini di prestigio, grazie anche al sodalizio con la massoneria deviata. Ovvero, la Camorra, che dopo la parentesi di Cutolo a Napoli, ha visto emergere prepotentemente il ruolo del clan dei Casalesi in provincia di Caserta. Clan che, peraltro, controlla ormai da anni il racket del litorale laziale con l’apporto della malavita locale. Complice, poi, la globalizzazione, la mafia di oggi è sempre di più una mafia apolide, che transita nei mercati, infettando aziende e tessuti produttivi un tempo ritenuti sani. Ciò testimonia senz’altro un arretramento nella lotta dello Stato contro di essa. Malgrado le importanti leggi approvate fra gli anni “80” e”90″, lo Stato fa ancora troppo poco per sradicare questa gramigna velenosa. Come ha ricordato recentemente il Premier Draghi, lo Stato deve investire maggiormente nel prevenire il fenomeno, favorendo il diffondersi della cultura della legalità nelle scuole e combattendo la povertà. Sotto il profilo giuridico, il Presidente del Consiglio ha insistito nella necessità di dotare i prefetti e le forze dell’ordine di strumenti più efficaci nel contrasto alla mafia. In particolare, per ciò che concerne la confisca dei beni, strumenti accessori del potere mafioso, ma che accrescono il prestigio dei boss fra la gente comune. Infine, la lotta all’omertà, che solo in parte il pentitismo ha scalfito. Esso, infatti, costituisce ancora oggi la migliore garanzia per la mafia di fare affari senza sporcarsi le mani. Un rischio che giustifica lo scetticismo di Bocca sull’imminente fine di un fenomeno, talmente compenetrato con lo Stato, da far sembrare illusoria qualsiasi speranza di cambiamento.                                                                                                                           articolo di Gianmarco Pucci 

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