Conte balla da solo

Alla fine Conte si è ritrovato a ballare da solo, risolvendosi il suo tentativo di cambiare il M5S in un inutile abbaiare alla luna. Dopo la rottura con Davide Casaleggio, figlio del defunto Gian Roberto e creatore della piattaforma Rousseau, Conte ha dovuto fare i conti con le ire del fondatore Beppe Grillo. Per l’ex comico, infatti, Conte non sa quello che dice, mirando le sue proposte a stravolgere l’essenza del Movimento e ad attribuirgli un DNA  moderato che storicamente non gli appartiene. Esso, già abbastanza nervoso per le vicende giudiziarie riguardanti il figlio Ciro, ha poi affermato che è Conte ad avere bisogno di lui e non il contrario, sottolineando quanto sia ancora necessaria la sua presenza nel Movimento per garantire ad esso un futuro. Grillo ha, infine, lodato l’operato di Luigi Di Maio, definendolo il miglior ministro di tutti i tempi, elevandolo di fatto al ruolo di leader del M5S. La risposta di Conte non si è, tuttavia, lasciata attendere. Nella conferenza stampa di ieri, svoltasi nella sala del Tempio di Adriano, l’ex premier ha manifestato tutto il suo disappunto per le parole e l’atteggiamento del fondatore, denunciando un clima teso nello stesso Movimento che fino a pochi mesi fa lo reputava uno statista. Conte ha spiegato che non è sua intenzione rimanere in un partito che lo considera alla stregua di un “prestanome” o di un leader dimezzato dipendente in tutto e per tutto dalle scelte del garante. Il giurista pugliese ha poi accusato Grillo di comportarsi come un padre padrone, colpevole a suo dire di voler mantenere la sua creatura in uno stato di minorità intellettiva e, di conseguenza, politica. A conclusione del suo intervento, Conte ha comunicato ai giornalisti che oggi consegnerà lo statuto da lui elaborato al garante Grillo e al reggente Crimi. Tale richiesta è per Conte condizione imprescindibile per poter continuare a far parte del Movimento, essendo ormai necessario mettere un punto fermo alla situazione venutasi a creare. Un avvertimento che suona sempre di più come un preludio a una scissione, a un lacerante addio destinato a disorientare ulteriormente la base grillina. In verità , per quanto possa sembrare il suo naturale sbocco, la scissione non  può dirsi ancora certa. Anche quando nacque il governo Draghi si paventò tale scenario e poi questo non si realizzò. Allora il presunto leader dei ribelli, Alessandro Di Battista, preferì dire addio al Movimento piuttosto che provocare una spaccatura. Una scelta di responsabilità che non è detto Conte sia disposto a ripetere. Il Movimento, infatti, ha più che dimezzato negli ultimi 3 anni i consensi, perdendo parte della  forza propulsiva che lo distingueva all’inizio. È ,dunque, implicito che se Conte decidesse di uscire dal Movimento, fondando un suo partito, finirebbe per mettere una pietra tombale su tutta la vicenda politica del M5S. Sarà probabilmente per questo che molti nel Movimento stanno seriamente pensando di sbarazzarsi dello scomodo Conte piuttosto che conferirgli l’impietoso  compito di commissario liquidatore del M5S . Tuttavia, è appena il caso di dirlo, tale tentativo, qualora Conte non avesse intenzione di abbandonare la cosa pubblica, è destinato miseramente a fallire. Così come è destinato a rappresentare, considerando l’elevato clima di sfiducia dei cittadini verso la politica,  un’avventura a durata limitata  nel tempo la fondazione di un partito da parte dell’ex avvocato del popolo. Si, perché nell’immaginario collettivo egli rappresenta comunque il premier del M5S e a poco servirebbe creare una nuova forza politica, moderata e centrista, che verrebbe percepita come non autentica dagli elettori. Ciononostante, è assai plausibile che questo identico ragionamento sia stato fatto, pur con toni diversi, da tutti gli attori in causa. Una scissione in un periodo come questo, in cui tutti i partiti vivono una crisi profonda, dividersi sarebbe un autentico suicidio per chiunque. E Grillo non è così ingenuo  da innescare uno psicodramma  proprio in casa sua, incedendo negli stessi vizi che proprio lui ha a lungo denunciato e di cui, in pieno stile Shakespeariano, sembra oggi farne le spese il movimento da lui creato.

Prove di disgelo

Era dal 1985 che Ginevra non ospitava un summit internazionale fra Russia e Stati Uniti. Allora c’era ancora la Guerra Fredda, le relazioni fra Usa e Urss erano ai minimi termini e nessuno era disposto a credere in un plausibile successo di qualsiasi negoziato fra Reagan e Gorbacev. Il primo, infatti, aveva già avuto modo di mostrare i muscoli, accusando l’Urss di essere una minaccia per la pace mondiale e per la convivenza pacifica fra gli uomini. Non a caso, appena due anni prima, nel corso di una conferenza stampa in Florida, definì l’Unione Sovietica “l’impero del male”, ventilando l’ormai concreta possibilità di un imminente conflitto armato con la Russia. Il secondo, invece, pur non discostandosi dalla linea di chi lo aveva preceduto alla guida del Cremlino, vedeva nel dialogo con l’occidente( Perestrojka) e nel disgelo( glasnost) la soluzione che avrebbe permesso alla Russia di modernizzarsi e di avviarsi sulla strada della democrazia. La distanza siderale tra i due contendenti globali, tuttavia, si ridusse nel giro di pochi anni, portando all’avvento di una nuova era, sicuramente più promettente rispetto a quella atomica appena conclusasi. Oggi la situazione è radicalmente diversa, perché altre potenze si sono affacciate sullo scacchiere internazionale. È anche vero, però, che non tutto quello di cui Biden e Putin hanno discusso è da ritenersi irrilevante. Dopo giorni di tensione, i due leader hanno convenuto sulla necessità di confrontarsi su questioni dirimenti per il futuro dell’umanità. Biden, al riguardo, ha voluto precisare che non è nelle intenzioni della sua amministrazione demonizzare la Russia, ma solo difendere i diritti del popolo americano. Toni distesi che hanno permesso di incanalare il dialogo verso una direzione maggiormente costruttiva. Un successo che anche lo stesso Putin è stato costretto a riconoscere. Il presidente russo ha, inoltre, lodato l’integrità morale e l’indiscussa esperienza politica del suo interlocutore, reputandolo uno statista più avveduto di Donald Trump. I due leader hanno altresì convenuto sulla necessità di avviare un proficuo dialogo su dossier ritenuti di importanza fondamentale per le loro relazioni bilaterali. In particolare, per quel che riguarda le armi nucleari, tanto Biden quanto Putin sono stati d’accordo sul fatto di ridurne la proliferazione, aggiornando il trattato New Start del 2009. Convergenze che si sono rilevate anche sull’urgenza di adottare misure a difesa dell’ambiente e di contrasto ai cambiamenti climatici. Qualche passo in avanti si è registrato anche sulla questione dell’Ucraina, avendo Putin per la prima volta lasciato intendere di non opporsi a un eventuale arbitrato internazionale. Fin qui i punti di contatto, ma non sono mancate le immancabili divergenze. Sui diritti umani Biden è stato irremovibile. Ha infatti chiesto conto a Putin delle ripetute violazioni dei diritti umani in Russia e delle persecuzioni verso i dissidenti. In particolare, su Alexey Navalny, Putin ha dichiarato alla stampa straniera che costui ha ripetutamente violato le leggi russe e che per tali ragioni non potrà essere rimesso in libertà. Ha poi obiettato che non accetterà in nessun modo lezioni di civiltà da chi viola i diritti dei prigionieri di guerra detenuti nella fortezza di Guantanamo. Il presidente russo ha infine smentito qualsiasi accusa rivolta dagli Stati Uniti riguardo alle presunte interferenze cibernetiche nelle elezioni americane, ritenendole pure congetture destituite di ogni fondamento. Schermaglie, dunque, che riecheggiano quelle tipiche della Guerra Fredda, ma che stridono con il panorama globale a cui si riferiscono. Se, infatti,allora il nocciolo della questione era il controllo del pianeta da parte di uno dei due blocchi, oggi il problema vero è un altro ed è costituito dalla Cina. La crescita del “Dragone” e il suo progressivo espandersi su tutti i continenti della Terra ha propriamente messo in crisi gli assetti strategici delle due tradizionali superpotenze, generando preoccupazioni e accrescendo il nervosismo. Un livello di tensione talmente alto che, complice anche la triste vicenda del Coronavirus, ha indotto Biden a mettere in guardia gli alleati europei e a cercare un canale di dialogo con la Russia. Ciò al fine evidente di rinsaldare l’alleanza atlantica e arginare la Cina, separando Pechino da Mosca. Una sottile strategia, dunque, quella messa in atto da Joe Biden, che ha già fatto parlare di un nuovo corso della politica estera Usa. Nuovo corso,che mirando a ristabilire gli equilibri globali a favore degli USA, ha già sortito l’effetto di impensierire i rivali dell’occidente, provocando il disgelo delle relazioni fra Usa e Russia. Un risultato certamente non di poco conto se si considera quanto il fronte orientale era coeso fino a pochi mesi fa.

La verità è fra le stelle

Ci avevamo creduto, ma in realtà ci eravamo semplicemente illusi. Malgrado i grandi progressi della scienza e della tecnica nell’ultimo quarto di secolo, per scoprire se siamo veramente soli nell’Universo dovremo attendere ancora a lungo. Infatti, nel documento consegnato dal Pentagono al Congresso Usa, narrante di oltre 140 casi di presunti avvistamenti di oggetti non identificati nei cieli americani, non si arriva a nessuna conclusione certa. Non si smentisce la possibile origine extraterrestre degli Ufo, ma al contempo non si esclude nemmeno di trovarsi innanzi a una gigantesca montatura. Il rapporto, la cui esistenza è stata svelata in anteprima dal New York Times nel 2021, aveva inevitabilmente riaccesso il dibattito nella società americana sull’ipotesi che ci fosse vita nell’Universo. Come avviene in questi casi, essendo molto sottile il confine fra scienza e fantascienza, si sono riproposte le tradizionali divisioni fra credenti ( o creduloni) e scettici. Solo che questa volta, in virtù delle dichiarazioni rilasciate da personalità al di sopra di ogni sospetto, per gli scienziati non era stato così facile infrangere le aspirazioni degli ufologi. A tal riguardo, ad alimentarne le speranze, ci aveva pensato finanche Barack Obama. L’ex Presidente aveva infatti dichiarato al Late Show che ci sono decine di casi di avvistamenti documentati che riguardano oggetti che per forma, velocità e moto di oscillazione non si comprende bene cosa siano. Parole che erano state riprese da John Ratcliffe, ex direttore dell’Intelligence Usa e capo della sicurezza del Dipartimento della Difesa, il quale aveva confermato la versione di Obama, favorendo il proliferare sul web di teorie e congetture. Secondo Ratcliffe sarebbero migliaia i fenomeni inspiegabili di questo tipo osservati nei cieli d’America. Ratcliffe ha, infine, confermato che i documenti fin qui desecretati sono solo una parte di quelli in possesso del governo americano. Documenti che, come rilevato da Nyt, sarebbero stati nel corso degli anni acquisiti da una apposita Task Force presidenziale, catalogati e archiviati in modo da occultarne l’esistenza al pubblico. Ciò ha inevitabilmente accresciuto la curiosità della gente e le speculazioni della comunità (pseudo) scientifica. Da Roswell in poi sono state innumerevoli le testimonianze di chi giura di avere assistito o addirittura di essere stato protagonista di incontri ravvicinati con extraterrestri. Racconti che hanno stuzzicato la fantasia di scrittori e registi e che hanno dato vita a un prolifico filone di opere di genere. Anche l’Italia, tuttavia, non è stata immune da episodi di questo tipo. Storicamente l’avvistamento ufologico più importante nel nostro Paese, dopo quello fittizio del cosiddetto “Ufo di Mussolini”, è stato quello del 1954. L’evento, che interessò buona parte dell’Europa sud occidentale, si osservò in Italia, soprattutto a Firenze e a Roma. A Firenze, durante  l’amichevole fra la Fiorentina e la Pistoiese, furono visti volteggiare sopra il Franchi centinaia di dischi volanti di forma sfericoidale. In quell’occasione gli alieni lasciarono anche concreta presenza del loro passaggio. Sulle strade di Firenze furono, casualmente, rinvenuti resti di una strana sostanza silicea di origine sconosciuta. Materia ritrovata giorni dopo a Roma, dove un ufo di grandi dimensioni fu osservato da decine di persone al crepuscolo del 19 Ottobre. In tale circostanza alcuni testimoni riferirono anche di presunti incontri con extraterrestri non giudicati, tuttavia, verosimili da parte delle autorità inquirenti. Eppure qualcosa di vero c’è sicuramente, non potendo liquidarsi l’intera faccenda come mera suggestione collettiva. Certamente, non sposando in pieno le tesi più fantasiose relative a rapimenti alieni ed omini verdi che escono dalle astronavi, si può tentare una mediazione fra fede e scienza, fra credere e non credere. Scientificamente è notizia ormai certa che a migliaia di anni luce da noi vi sarebbe una galassia, molto probabilmente abitata e con un sistema solare simile al nostro. La presenza poi di tracce di acqua su Marte e minerarie su Venere non hanno mai escluso pienamente la possibilità che in essi ci sia stata, anche miliardi di anni fa, qualche forma di vita. Ciononostante, queste evidenze scientifiche non confermano l’esistenza di vita aliena né necessariamente hanno attinenza con la vista degli Ufo. Come è stato coerentemente spiegato da esperti della NASA, quelli che vengono spacciati per velivoli extraterrestri potrebbero altro non essere che palloni sonda, meteorologici o non, che impiegano una tecnologia avanzata a scopi scientifici o militari. L’iperacusica, a tal riguardo, spiegherebbe tanti misteri e susciterebbe qualche preoccupazione di natura politica. In buona sostanza, si rientrebbe nella classica competizione fra superpotenze dove si gioca a guerre stellari, lasciando credere all’uomo comune che sia prossima la conquista della Terra da parte degli alieni. Uno scenario, dunque, simile a quello narrato nella Guerra dei Mondi di H.G. Wells e che ci lascia con una domanda fondamentale: è così assurdo credere che non siamo soli nel cosmo? Per avere la risposta basta guardare in cielo, fra le stelle.

Un difficile dopoguerra

Per molti il 18 Aprile è una data priva di significato, scivolata nel dimenticatoio della storia e come tale depauperata del suo valore simbolico. In realtà, per noi italiani il 18 Aprile è, o perlomeno dovrebbe, essere cerchiata in rosso sul calendario per l’importanza che ha avuto nel disegnare l’Italia di oggi. Il 18 Aprile del 1948, infatti, si tennero le prime vere elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Elezioni che videro per la prima volta fronteggiarsi apertamente e alla luce del sole due fronti politici destinati a polarizzare la vita pubblica italiana nei successivi decenni. In quella competizione elettorale gli elettori,  uomini e donne, furono chiamati a compiere, dopo la fine della Monarchia, una scelta fondamentale fra due diverse e, a tratti inconciliabili, idee di nazione. Da un lato vi era, infatti, un fronte popolare composto dalla sinistra socialista e comunista che, in virtù dei solidi legami con l’Urss, suscitava parecchi timori al di là dell’Atlantico. Dall’altro c’era la Democrazia Cristiana con i suoi alleati che ambiva a traghettare il Paese verso una democrazia compiuta, alleata degli Stati Uniti e saldamente inserita nella compagine occidentale. Ciò bastò a rendere particolarmente aspra e partecipata la campagna elettorale, non avendo lesinato le due opposte tifoserie critiche e accuse ai rispettivi avversari. Il livello dello scontro in atto era legittimato altresì dalle turbolenze internazionali suscitate dall’insorgente Guerra Fredda che la competizione elettorale italiana amplificava enormemente. Il timore, infatti, che la vittoria dei social-comunisti potesse far divampare  in Italia una rivoluzione marxista  generò consistenti preoccupazioni nei ceti imprenditoriali e industriali del Paese. La paura di perdere la propria ricchezza indusse più di uno a trasferire all’estero i propri patrimoni. Timori condivisi anche dal governo e dalla Democrazia Cristiana. A tal riguardo, temendo un’insurrezzione armata, il ministro degli Interni, Mario Scelba, chiese al governo di far scendere in campo l’esercito per fronteggiare l’emergenza istituzionale. Un’opzione che il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, scoraggiò fino all’ultimo, confidando in un intervento più del Cielo che degli uomini. E la fede ha senz’altro svolto un ruolo non secondario nella campagna elettorale del 1948. Dalla nascita dei comitati civici promossi dall’Azione Cattolica di Luigi Gedda alle orazioni radiofoniche di padre Lombardi ( chiamato “il microfono di Dio”) furono numerose le iniziative volte ad indirizzare il voto dei cattolici verso la DC. Il Pontefice Pio XII arrivò finanche ad affermare che il voto a favore dei comunisti era da considerarsi un voto contro Cristo e la sua Chiesa. Critiche a cui il FDP rispose dispiegando un imponente apparato di uomini e mezzi, finanziato in gran parte da Mosca e dal Patto di Varsavia. Tali fatti indussero anche gli Usa a regolarsi di conseguenza, pena l’esclusione dell’Italia dagli aiuti economoci del Piano Marshall. Un rischio che il Paese, uscito sconfitto e devastato dalla guerra, non poteva permettersi. Nella primavera del 1948 erano infatti numerose le imprese da ricostruire e le famiglie in condizioni di indigenza. Sofferenze che il governo di Alcide De Gasperi tentò di lenire, vedendo negli aiuti economici e nell’Alleanza Atlantica l’unica possibilità di resurrezione per una nazione che doveva necessariamente rinascere. In tal senso, De Gasperi è stato un illustre esempio di virtù cristiane e politiche, essendo riuscito nell’impresa di conciliare un Paese di per sé incline alla frammentazione e a renderlo migliore di quanto a volte possa sembrare. Il suo spirito di servizio, la sua totale abnegazione verso la comunità nazionale sono stati e dovranno essere da esempio in futuro per chiunque vorrà occuparsi della cosa pubblica. Perché come ha detto recentemente anche Papa Francesco la politica è la più alta forma di carità. Senza politica non vi può essere progresso per la società. E senza progresso  non vi può essere libertà. Una lezione che la vittoria delle forze democratiche nella primavera di settantacinque anni fa testimonia, a pieno titolo, ancora oggi.

Quel braccio della Magliana

Girovagando per Roma, nella zona che da Ponte Galeria si estende verso via Portuense, al centro del quadrante sud-ovest della capitale, ci si imbatte in un quartiere di recente urbanizzazione, ma che conserva ancora tracce del proprio passato rurale. Esso è attraversato da un ponte che, passando sopra al fiume omonimo, dà alla zona tanto il nome quanto la celebre fama. Una fama che ha scandito dalla seconda metà degli anni “70” la vita del quartiere della Magliana, conferendole l’immagine negativa di fucina del crimine romano. In verità, nonostante gli anni siano passati e la Banda della Magliana non faccia più notizia ( salvo sporadici episodi riportati dalla cronaca nera locale ), si continua a pensare alla zona in questi termini, come se il degrado e l’immoralità siano destinati a rimanere impressi per sempre in questo angolo di periferia. A onore del vero, per quel che riguarda la Banda della Magliana, essa fu un fenomeno che non rimase circoscritto alla zona di Pian due Torri ( nella Magliana Nuova), ma si estese ben presto ad altri quartieri. Obiettivo della Banda, infatti, fu fin dall’inizio quello di riunire la frastagliata e disarticolata realtà malavitosa romana sotto un unico simbolo, assoggettando le varie “paranze” alla stessa regia operativa. Un metodo che ricalcava quello fatto proprio  da Raffaele Cutolo a Napoli con la Nuova Camorra Organizzata e che a Roma aveva già avuto un illustre precedente: il Clan dei Marsigliesi. Questa banda, che agiva nella Roma dei  primi anni “70”, riuscì a imporsi rapidamente, conquistando l’egemonia sul fiorente traffico di droga della Capitale e sulle altre attività illecite ad esso connesse. Tuttavia, il declino dei Marsigliesi fu rapido quanto la loro ascesa e ciò favorì la nascita di quella che diventerà la prima ( e forse) unica vera mafia capitolina. Come riferito da Antonio Mancini, l’idea di unire le forze venne a Nicolino Selis, intimo amico di Cutolo, ma fu il sodalizio criminoso instauratosi fra Franco Giuseppucci, un buttafuori di una sala scommesse di Ostia, Enrico De Pedis, capo della banda del Testaccio, e Maurizio Abbatino, capo di una paranza di rapinatori della Magliana, a far decollare il progetto. Poco tempo dopo ci sarà il battesimo del fuoco della nuova banda, la quale metterà a segno il primo sequestro eccellente della sua storia. La sera del 7 Novembre 1977, infatti, nei pressi di via della Marcigliana, la Banda rapisce il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. I sequestratori chiedono alla famiglia un miliardo e mezzo di lire per liberare l’ostaggio. Il riscatto viene poi pagato, ma l’ostaggio resta comunque ucciso perché ha visto in faccia uno dei rapitori. Da qui in poi sarà un crescendo di azioni criminali che in breve tempo consegnerà Roma al potere del nuovo gruppo criminale, inaugurandone così  la leggenda. Una leggenda alimentata dai molti misteri sulla banda e dai rapporti fra essa e apparati deviati dello Stato. Contatti opachi che portarono Giuseppucci e la sua banda a intessere relazioni con la politica e l’alta finanza, senza trascurare le alleanze con le altre mafie presenti nel Mezzogiorno d’Italia e con la loggia massonica della P2. Sfortunatamente, complice la  prematura scomparsa di Giuseppucci “il Negro”, ucciso in uno scontro a fuoco a Trastevere, il 13 Settembre 1980, dal clan rivale dei Proietti, inizia il declino della banda e con essa restano avvolti nella nebbia molti segreti italiani. Dal caso Moro alla sparizione di Emanuela Orlandi sono innumerevoli i misteri di cui la Banda è stata custode e che non hanno ancora una risposta. Eppure, via della Magliana, anche dopo la decimazione della banda ad opera delle forze dell’ordine, ha continuato a far parlare di sé. Nel 1988 si verifica un nuovo fatto di sangue. L’autore è Pietro De Negri, titolare di un negozio per la pulizia dei cani ( da cui il soprannome delitto del “Canaro” dato dalla stampa al caso) con piccoli precedenti penali per furto e droga. Egli, il pomeriggio del 18 Febbraio, uccise un suo ex complice, il pugile dilettante Giancarlo Ricci, che da tempo lo ricattava al fine di estorcergli denaro per l’acquisto della droga. L’omicidio fu particolarmente cruento, perché De Negri attirò Ricci in una gabbia per il lavaggio degli animali dove lo torturò, lo mutilò e poi lo uccise, dando fuoco al cadavere. La scoperta dei resti avvenne l’indomani, in un terreno vicino adibito al pascolo. Una volta esclusa la pista del regolamento di conti fra spacciatori, le indagini si concentrarono su De Negri. Dopo tre giorni il delitto del “Canaro” aveva un colpevole, avendo De Negri confessato tutti gli addebiti, senza mostrare peraltro alcuna forma di pentimento. Con l’arrivo degli anni “90” la Magliana scivola nell’indifferenza generale. Le cronache locali, complice il progressivo degrado di Roma negli ultimi anni, smettono di dare risalto agli episodi  criminali della zona. Oggi, similmente ad altri quartieri, la Magliana vive sospesa in uno stato di quiete apparente, scandita solo dal pigro e placido scorrere del Tevere. Al contrario, sul racconto delle efferatezze compiute in passato si sono cimentati il cinema e la letteratura. Dal franchising di Romanzo Criminale( libro, film e serie tv) ai due film del 2018 sul delitto del “Canaro”( Dogman di Matteo Garrone e Rabbia furiosa di Sergio Stivaletti) sono molteplici le opere che vedono in via della Magliana un teatro narrativo privilegiato. Narrazione che è riuscita nell’intento di trasformare la cronaca in storia e la storia in mitologia suburbana. Miti di cui in certi casi si farebbe volentieri a meno.

Afrika connection

Si dice che ogni guerra è come un viaggio all’Inferno e che l’Africa è una scorciatoia per raggiungerlo. Le cronache, infatti, abbondano di tragedie che vedono nelle desolate e insidiose lande africane il proprio teatro privilegiato. Specialmente quando le vittime sono occidentali, che si trovano ad essere testimoni diretti del silente dramma patito dal Continente Nero. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, rimasto vittima, insieme al suo agente di scorta, il carabiniere Vittorio Iacovacci, di un crudele attentato in Congo, nella regione del Nord Kivu. Si ritiene che, come già accaduto in precedenza, l’agguato sia opera dei ribelli che operano nella regione e che rendono essa una delle zone più pericolose del pianeta. Una storia questa, che a distanza di due anni, non ha ancora conosciuto giustizia e che ha riacceso il dibattito sulla cosiddetta “Questione africana”. Si, perché il Congo non è l’unico Stato africano ad avere le strade lordate di sangue innocente. Ciò che è avvenuto a febbraio 2021 è la storia di tutti i giorni in Congo e in altre nazioni dell’Africa profonda. Una storia che dalla fine del colonialismo ha visto proliferare dittatori sanguinari, signori della guerra, terroristi e mercenari di ogni tipo. Criminali  che vedono  nella guerra un’indebita fonte di arricchimento, idonea ad affermare il proprio potere su popolazioni stremate da guerre, malattie e carestie. Piaghe purulente che affliggono l’Africa da decenni e di fronte alle quali l’Occidente ostenta una sostanziale indifferenza. Eppure esso, nonostante il colonialismo sia finito da un bel pezzo, è ancora lì, a gestire le sorti del continente per mezzo delle sue aziende e delle sue multinazionali. Aziende che negli ultimi cinquant’anni hanno fatto lauti guadagni, sfruttando a proprio vantaggio il dolore africano e finanziando chi questo scempio glielo ha inopinatamente permesso. È accaduto in Ruanda, dove  è stato dimostrato che l’eccidio dei Tutsi da parte degli Hutu è avvenuto grazie ad armi fornite dal Belgio e da altre nazioni europee. Un genocidio che,  peraltro, ha avuto notevoli ripercussioni sulla stabilità della regione e delle nazioni vicine ( fra cui proprio il Congo). Idem è accaduto in Sierra Leone, dove la decennale guerra civile è stata finanziata dal traffico sia delle armi sia dei diamanti con i paesi occidentali. Risorsa quest’ultima di cui il paese è straordinariamente ricco e che è stata al centro del dibattito internazionale riguardo alla necessità di bloccarne il contrabbando ( risoluzione 1306/2000 dell’ONU). Stesso scenario si è, ancora,  ripetuto nel 1992, in Somalia, quando in seguito alla cacciata di Siad Barre il paese è sprofondato nella guerra civile ed è stato necessario l’intervento delle Nazioni Unite per riportare la normalità ( operazione “Restore Hope”). Somalia che, anche dopo la fine del colonialismo italiano e  l’instaurazione del regime di Barre, ha mantenuto comunque saldi rapporti economici e commerciali con l’Italia. Interessi che hanno continuato a persistere con la fine della dittatura e che hanno favorito il contrabbando delle armi e dei rifiuti tossici nel Paese. Un caso questo che è stato al centro di inchieste prima giornalistiche e poi giudiziarie. Emblematica, in tal senso, è stata la vicenda dell’uccisione di Ilaria Alpi, giornalista del Tg3, e del suo cameraman, Miran Hrovatin. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, Ilaria Alpi, che era giunta in Somalia per documentare lo svolgimento della missione di pace, si era imbattuta nei traffici illeciti con l’Italia. Una circostanza questa, lo si scoprirà solo in seguito, appresa dalla  giornalista per mezzo di un funzionario del Sismi, Vincenzo Li Causi, in missione in Somalia per conto della Nato. La notizia, invero, era già nota alla Cia e al Pentagono. Non a caso, infatti, gli Stati Uniti si opposero fermamente alla partecipazione dell’Italia alla missione, in virtù dei rapporti opachi intrattenuti fin dalla fine degli anni “80” fra il governo italiano e quello Somalo. Sfortunatamente Alpi e Hrovatin non faranno in tempo a comunicare quanto da loro appreso, perché verranno assasinati in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, il pomeriggio del 20 Marzo 1994. Da quel giorno numerosissimi sono stati i depistaggi e i tentativi di impedire l’emergere della verità. Una verità scomoda che, leggendo le carte processuali, avrebbe quasi sicuramente scoperchiato il “vaso di Pandora” dell’affare Somalia, provocando un autentico terremoto. Terremoto evitato dalla morte dell’ inviata del Tg3, ma che ha posto comunque in rilevo interessanti connessioni. Come quella relativa al coinvolgimento nell’omicidio dei nostri servizi segreti.  A tal proposito, a venire in rilievo è la figura del maresciallo Vincenzo Li Causi, informatore di Ilaria Alpi e figura chiave dell’inchiesta. Costui, morto nel Novembre 1993 in seguito dell’operazione Ibis II, era un agente segreto del Sismi ed esponente di spicco dell’organizzazione Gladio. Gladio, che come tanti altri misteri italiani del secondo dopoguerra, ha avuto un ruolo non trascurabile anche in questa vicenda. Con molte probabilità, infatti, Gladio ebbe parte attiva nel coprire le attività italiane nell’ex colonia africana. Compito che l’organizzazione ha svolto fino al 1991 e che collega l’omicidio di ilaria Alpi a un altro omicidio ad esso di poco antecedente: quello di via Poma. A tal riguardo, un’ipotesi non proprio peregrina sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, adombra significativi dubbi sulla società per cui la ragazza lavorava come segretaria. Secondo tale teoria, l’A.I.A.G. altro non era che una fittizia agenzia turistica che copriva l’attività dei servizi all’estero( fra cui le attività in Somalia di Gladio). Una circostanza questa che non è mai stata approfondita e che, a distanza di trent’anni, non ha visto nessuna condanna per il delitto in questione, ma solo altri depistaggi. Depistaggi che, a giusto titolo, hanno meritato all’Italia il titolo di terra dei segreti e delle cospirazioni.

L’ora del crepuscolo

Ci sono momenti nella vita di un Paese destinati a fare la storia. Momenti che nella loro tragicità contribuiscono a formare la coscienza collettiva di un popolo. Il 16 Marzo 1978 è stato uno di questi. Quella mattina, che molti ricordano e che ad altri è stata raccontata, l’Italia si ritrovò risucchiata in un vortice di paura e sgomento nell’apprendere la notizia che mai nessuno si sarebbe aspettato, neanche lontanamente, di udire. Le agenzie di stampa riportavano, infatti, la notizia di un attentato verificatosi in via Mario Fani, una traversa di via Trionfale, in cui era avvenuto il sequestro di Aldo Moro, ex presidente del Consiglio e presidente della DC, e l’uccisione degli uomini della sua scorta. L’attentato, subito rivendicato dalle Brigate Rosse, durò pochissimo ( circa 10 minuti), ma riuscì comunque nell’intento di colpire al cuore lo Stato. Il rapimento di Moro gettò rapidamente il paese nel caos e fece paurosamente tremare la fragile democrazia italiana. La gravità dell’accaduto spinse i sindacati a  proclamare lo sciopero generale dei lavoratori e la Camera dei Deputati a sospendere ogni attività legislativa in corso fino a quel momento. Una decisone resa, peraltro, necessaria dalla circostanza che proprio a Montecitorio, la mattina del 16 Marzo, si sarebbe dovuta tenere la discussione sulla fiducia al nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti. Governo, che per la prima volta dal 1947, si reggeva sull’appoggio, esterno ma determinante, del PCI di Enrico Berlinguer ( cosiddetto governo della non-sfiducia). Invero, alla costruzione della nuova maggioranza, Aldo Moro aveva dedicato nei mesi precedenti al sequestro ogni energia, sfidando quanti nella DC erano ostili all’idea del Compromesso storico. Un accordo questo che, facendo convergere le forze cattoliche, laiche e socialiste su un’unica piattaforma programmatica, spianava la strada a una rivoluzione copernicana della politica italiana, ferma da troppo tempo alle liturgie dell’immediato dopoguerra. La svolta, tuttavia, non piaceva a molti e ciò procurò  a Moro diverse critiche ( fra cui quella di usare un linguaggio oscuro per non fare comprendere le sue reali intenzioni) e suscitò parecchie preoccupazioni. A Washington, in particolare, qualcuno fremette alla notizia di un’imminente entrata dei comunisti al governo. E al riguardo sono ormai note  le minacce che Henry Kissiger, Segretario di Stato Usa, rivolse a Moro in occasione del suo viaggio nella capitale americana. Tale evenienza ha poi alimentato le speculazioni successive  su un presunto coinvolgimento degli Usa nel sequestro. Dubbi avvalorati  dalla presenza sul luogo della strage di uomini dei servizi impegnati nell’operazione Gladio ( Stay Behind), operazione che aveva come obiettivo il contrasto al comunismo nei paesi della Nato. Una circostanza questa che non fu smentita mai da nessuno, nemmeno dai terroristi che presero parte al sequestro. Misteri che si addensano nei 55 giorni successivi al rapimento e che, ancora oggi, a 45 anni dalla morte dello statista democristiano, animano il dibattito pubblico. Come la scomparsa della valigetta personale di Moro, prelevata da qualcuno in Via Fani e occultata senza che ve ne rimanesse traccia. Cosa contenesse la valigetta non è, purtroppo, dato saperlo, ma probabilmente vi erano indizi idonei a compromettere la posizione di più di una persona. Una sorte analoga è poi toccata al famoso memoriale di Moro, rinvenuto dai carabinieri del generale Dalla Chiesa nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso, a Milano, nell’autunno del 1978. Il memoriale, muovendo accuse ben precise verso alcuni dirigenti democristiani, è scomparso nel 1978 per poi riapparire, parzialmente, nel 1990, anno della scoperta di Gladio. Proprio l’organizzazione, che è spesso richiamata nella vicenda, ha contribuito a infittire i misteri sul ruolo giocato da alcuni apparati dello Stato nella pianificazione del sequestro. In particolare, a destare scalpore,  fu la presunta seduta spiritica, svoltasi in una abitazione romana, in cui venne indicato il nome della prigione di Moro. In tale esoterico contesto venne pronunciato la parola Gradoli, una località situata nel viterbese. Sfortunatamente, si apprenderà solo dopo, Gradoli non indicava la città, ma l’omonima via di Roma, che fu fino al 18 Aprile del 1978 la prigione di Aldo Moro. Una via divenuta da quel giorno universalmente nota come la via delle spie, crocevia di tutte le trame oscure che ormai da decenni attraversano la vita del Paese. Un riferimento quello alle spie dovuto alla presenza in quel luogo di molti appartamenti affittati a membri dei servizi segreti (fra cui alcuni affiliati a Gladio). Sempre questa, secondo le successive indagini degli inquirenti, avrebbe avuto importanti collegamenti con una scuola di lingue di Parigi: l’istituto Hyperion. La scuola, fondata nel 1977, fu a lungo ritenuta un centro di formazione culturale marxista per i terroristi rossi di mezzo mondo. In verità, come emerso in seguito, L’Hyperion era, con molte probabilità, una centrale di coordinamento della Cia per le operazioni in Europa. Secondo poi il capo della colonna romana delle BR, nonché assasino di Moro, Mario Moretti, la pianificazione del sequestro sarebbe avvenuta proprio qui e per motivi che restano, ancora oggi, in gran parte ignoti ( come oscuro è il ruolo avuto da Moretti nella vicenda). Senza ombra di dubbio, però, assumendo come presupposto che molti interrogativi sul caso Moro resteranno insoluti, è appena il caso di fare qualche riflessione su quanto accaduto più di 40 anni fa. Sotto il profilo dell’analisi storica, l’intuizione di Moro andava nella giusta direzione, ovvero quella di superare la democrazia bloccata, cercando convergenze parallele con il Partito Comunista. Un’idea che, oggi si può pacificamente affermare, precorse i tempi, favorendo la nascita vent’anni dopo dell’Ulivo e poi del PD. È tanto più innegabile che Moro vedesse come prossimo al crepuscolo il sistema politico della sua epoca e di come egli, prima di Tangentopoli, avesse messo in guardia il suo partito, La Democrazia Cristiana, dai rischi di un’amministrazione del potere pubblico poco trasparente. Un richiamo alla sobrietà dei costumi che è stato al centro anche del dibattito sulla questione morale di Enrico Berlinguer. Un richiamo rimasto inascoltato, ma che nella notte della Repubblica di Mani Pulite, si è dimostrato oltremodo profetico. E si sa che le profezie hanno il difetto di farsi apprezzare solo dopo che si sono tragicamente avverate.

L’incaricato speciale

Sono passati 10 giorni dalle dimissioni di Giuseppe Conte e del suo governo e ancora, nonostante si siano moltiplicati i segnali incoraggianti, non si vede l’uscita dal tunnel della crisi più pazza della storia repubblicana. Una crisi che sembra destinata,  dopo il fallito tentativo di rimettere insieme la maggioranza da parte del presidente della Camera, Roberto Fico, a trovare il suo epilogo nella nascita di un “governo del presidente” presieduto da Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e presidente della Bce. Tramontata, dunque, l’ipotesi di mettere una pezza al governo Conte( rivelatosi non a caso una vera e propria foglia di fico) ecco spuntare dal cilindro di Mattarella l’opzione Draghi, l’uomo che salverà la patria e che traghetterà l’Italia fuori dal mare in tempesta della pandemia. Tuttavia, il nome di Draghi, ritenuto da molti una garanzia visto lo spessore della persona e l’indiscutibile accreditamento di essa presso le più importanti istituzioni internazionali , non ha mancato di dividere e animare il dibattito politico italiano. Tanti sono stati, infatti, i mugugni nell’ex maggioranza giallo-rossa, specialmente da parte di chi fino all’ultimo aveva sperato in cuor suo di vedere nascere un nuovo governo Conte e che ora si ritrova costretto, più per spirito di autoconservazione che per amor di patria, a votare la fiducia al nuovo esecutivo. Non a caso, nelle ultime ore, si sta  profilando l’eventualità che a sostenere il governo Draghi sarà una maggioranza molto ampia, a riprova che nel nostro paese la salvaguardia del seggio e dei privilegi sembrano essere diventati la principale preoccupazione di una fetta consistente dell’attuale classe dirigente. Ciò nonostante si registrano sensibilità diverse e pertanto il percorso da qui al giuramento del nuovo esecutivo potrebbe rivelarsi meno agevole del previsto. Se, difatti, Draghi ha già ricevuto l’appoggio delle ali moderate del emiciclo, al contrario in quelle estreme stanno proliferando le distinzioni e i dubbi sulla strada da intraprendere. In tal senso, la scelta più interessante sarà quella del M5S,  passato nelle ultime ore da un deciso rifiuto verso questa ipotesi a una posizione più conciliante e propositiva. Le principali obiezioni poste dal Movimento grillino, che oggi incontrerà il presidente incaricato e parlerà per bocca del suo leader, Beppe Grillo, per l’occasione giunto a Roma, riguardano essenzialmente il passato di Mario Draghi. Un passato, che come quello di molti uomini di potere, cela luci e ombre e suscita quindi pesanti interrogativi. Draghi verrà senz’altro ricordato come colui che ha salvato la moneta unica dalla propria dissoluzione, come colui che ha fatto di tutto( whatever it takes) per impedire il crollo dell’edificio europeo quando la speculazione internazionale mordeva le sue giunture. Tuttavia, molti in questi giorni ricordano le parole pronunciate più di dieci anni fa dal presidente emerito della Repubblica , Francesco Cossiga, il quale definì Draghi un vile affarista, reo di aver svenduto l’industria pubblica italiana a Goldman Sachs e alle banche d’affari mondiali. Cossiga citò al riguardo la crociera sul Britannia del 1992, in cui Draghi era presente e dove fu decisa a tavolino la svendita dell’ IRI  e degli altri colossi di Stato( cosa che è poi avvenuta pochi anni dopo ). Ora, nel 2021, a seguito di una crisi che si presta ad essere corollario della disfatta totale del ceto politico del nostro paese, una crisi innescata più dalla mania di protagonismo dei suoi attori che per divergenze reali sui contenuti, l’opzione Draghi, salutata da Cossiga come un’autentica sciagura per il paese, è diventata realtà. Il presidente incaricato terminerà oggi il suo primo giro di consultazioni fra i partiti e ha già fatto sapere che Lunedì incontrerà le parti sociali. Un segnale notevole e che va nella giusta direzione di ricostruzione di un paese colpito duramente dalla crisi socio-economica scatenata dalla pandemia e che si spera possa illuminare l’operato del nuovo esecutivo. Si, perché l’ora è grave e il paese ha bisogno di risposte. L’epidemia non accenna ad arretrare e il piano vaccinale di Arcuri ha mostrato significative crepe per ciò che concerne la distribuzione dei sieri. I molti posti di lavoro che sono stati bruciati necessitano di investimenti per essere recuperati e non di nuovi tagli lineari come quelli fatti dal governo Monti dieci anni fa. Sarà per questo che il nascente governo si sta modellando sullo schema del governo Ciampi del 1993, un governo tecnico ma che vedeva la partecipazione politica di importanti esponenti nei dicasteri di peso. Per questi motivi, in attesa di assistere all’avvento dell’era Draghi, chi scrive si riserva di astenersi dal formulare qualsiasi giudizio squisitamente politico sul nuovo esecutivo. Vano sarebbe, infatti, negare un moderato scetticismo verso l’ennesimo ricorso a una soluzione tecnica per risolvere problemi di altra natura, ma tanto è. Pertanto aspettiamo Mario Draghi alla prova dei fatti, tanto a cambiare idea si fa sempre in tempo.                                                                                                                Articolo di Gianmarco Pucci

La crisi fantasma

Dopo mesi di avvertimenti, accuse, annunci e smentite, la tanto attesa crisi di governo si è finalmente manifestata in tutta la sua opacità. Il fatto non sorprende se si considera che già da molte settimane erano in essere i prodromi della tempesta perfetta abbattutasi sull’esecutivo. Ciò che lascia sbigottiti è il modo e la tempistica con cui Matteo Renzi ha deciso di trascinare il paese verso una crisi al buio, ordinando ai suoi ministri di abbandonare l’esecutivo. Renzi ha accusato la maggioranza di aver posto le premesse per la fuoriuscita di Italia Viva dal governo, adducendo a pretesto il rifiuto dei grillini di avvalersi del MES sanitario e quello di Conte di cedere la delega sui servizi segreti a una persona diversa dal Presidente del Consiglio dei Ministri. In verità, come evidenziato anche da molti osservatori e analisti politici, la realtà è sensibilmente diversa e il ragionamento di Renzi sembrerebbe rispondere più a un calcolo personale che a una reale divergenza sui contenuti dell’azione di governo. Il ragionamento, però, mai come in questo caso rischia di rivelarsi non solo errato, ma anche di favorire altri pronti ad approfittare della situazione a loro favore. Se il momento non fosse così drammatico, con gli italiani alle prese con la terza ondata del Coronavirus, verrebbe quasi da sorridere innanzi al delirio di onnipotenza di un piccolo leader passato in 10 anni da rottamatore a rottamato della politica e che pensa di sopravvivere rispolverando tattiche  vagamente macchiavelliche. Certo “tirare a campare è meglio che tirare le cuoia” diceva Giulio Andreotti, ma è anche vero che il suicidio è un peccato mortale e quello di Matteo Renzi e dei suoi accoliti è un suicidio di quelli destinati a fare la storia. Una fine ingloriosa, consumatasi nel segno del tradimento e delle menzogne, ma che chiude innegabilmente un’epoca e sulle cui ceneri, come l’Araba Fenice, si prepara a nascere un nuovo fenomeno politico: quello dei “costruttori”. Il nome, a differenza di quello precedente dei “rottamatori”, sembrerebbe essere più promettente se non fosse che ci si trova innanzi all’ennesimo caso di trasformismo che da secoli anima le cronache parlamentari del bel paese. Nel caso in esame, sempre per citare Macchiavelli, il fine che giustifica i mezzi è quello di garantire la tranquilla e ordinata prosecuzione della legislatura e consentire in tal modo a deputati e senatori di salvare vitalizio e pensione. E In virtù di questa nobile causa molti si preparano a cambiare posizione e a venire in soccorso di Conte, il quale non sembrerebbe in queste ore avere alcuna intenzione di dimettersi né di formalizzare in alcun modo la crisi. In tal senso il comportamento del premier è stato incomprensibile quasi quanto quello di chi ha voluto a tutti i costi rompere l’accordo di governo. Incomprensibile, perché per prassi istituzionale il governo dovrebbe rassegnare le dimissioni in caso di dissoluzione della maggioranza che lo sostiene o quanto meno informare tempestivamente le Camere e non affidarsi a giochi di palazzo. Giuseppe Conte, invece, sembra aver deciso di seguire quest’ultima strada, confidando nella magica materializazzione di una nuova maggioranza in aula che gli permetta di rimanere a Palazzo Chigi per altri due anni. Una scelta questa costituzionalmente legittima, ma discutibile sul piano del merito e per la quale Conte potrebbe pagare pegno nel prossimo futuro. Infatti, a prescindere da ciò che accadrà Lunedì e Martedì, il governo Conte ter sarà un governo debole, logorato, appeso alla volontà di un drappello di parlamentari intenzionati a non perdere il seggio e i privilegi ad esso connessi. Uno spettacolo a dir poco indecente, che segna il tramonto nel nostro paese della democrazia parlamentare, non essendo certamente i voltagabbana sinonimo di virtù e senso delle istituzioni. Finanche Clemente Mastella, inizialmente tirato in ballo e ritenuto il regista di questa operazione di palazzo, si è tirato fuori dal progetto politico in atto  dopo la polemica che lo ha visto coinvolto con Carlo Calenda. Dissociazione che rende bene l’idea del caos che aleggia nelle istituzioni e che vede ridiventare determinanti piccoli partiti e vecchi leader, i quali cercano di intestarsi il successo di un’ operazione politica dagli esiti tutt’altro che scontati.

Cronaca di un’insurrezione

Il 6 Gennaio 2021 verrà a lungo ricordato come uno dei giorni più infausti per la storia della democrazia moderna, una parentesi buia per gli Stati Uniti e per tutto il mondo occidentale. Nel giorno dedicato dai cristiani alla festa dell’Epifania, la follia si è impadronita di un’intera nazione sprofondandola nell’abisso della violenza e della barbarie. Mai era capitato di vedere un parlamento assalito con tanta brutalità da una folla inferocita e soprattutto mai  ci si sarebbe aspettati che a venire violato sarebbe stato il tempio della democrazia a stelle e strisce. Per un giorno la nazione guida dell’Occidente si è trasformata, con grande gioia dei suoi avversari, in una “repubblica delle banane” sudamericana, dove tutto può essere messo in discussione a dispetto di quanto prescritto dalle leggi. Per la prima volta in oltre duecento anni di attività il Congresso degli Stati Uniti, riunitosi per certificare ufficialmente la vittoria di Joe Biden alle elezioni dello scorso 3 Novembre, si è ritrovato a fare i conti con la furia cieca di un popolo che non riconosce più la sacralità del suo perimetro. In verità il fuoco covava sotto la cenere già da tempo, pronto a divampare alla prima occasione propizia. In questo caso l’occasione è stata offerta dal conteggio finale dei voti dei grandi elettori da parte delle Camere, una fase puramente formale che ha visto la definitiva proclamazione di Biden come presidente degli Stati Uniti dopo mesi di aspre polemiche. Tali contestazioni sono, infatti, state al centro del dibattito politico americano degli ultimi due mesi, non avendo il presidente uscente Donald Trump voluto riconoscere la vittoria dell’avversario. Da settimane Trump parla di frodi, di elezioni rubate ed esercita pressioni indebite per  sovvertire quanto affermatosi nelle urne. Alla fine la sua gente ( definita “un meraviglioso popolo di patrioti”) lo ha ascoltato ed esaudito, insorgendo contro quel parlamento a lui sempre più inviso. Per ore, al grido di “fermate il furto” decine di suoi sostenitori  hanno vagato armati per i corridoi del Congresso, devastando locali , uffici e ingaggiando scontri con le forze di sicurezza poste a presidio del Campidoglio. La gravità della situazione ha  chiaramente costretto gli agenti del servizio segreto ad evacuare il palazzo e a interrompere la seduta parlamentare, ripresa solo a tarda notte, dopo cioè la messa in sicurezza dell’area da parte della Guardia Nazionale. Drammatico è stato il bilancio delle vittime al termine dei tumulti: 4 morti, 13 feriti, oltre 60 arresti e un’ infinità di polemiche sull’inefficienza delle misure di sicurezza poste a difesa del Congresso. Ora dopo la tempesta è tornata la quiete, ma tanti sono gli interrogativi e  i dubbi che aleggiano intorno a questa triste vicenda. Joe Biden, che giurerà come presidente il prossimo 20 Gennaio, ha accusato Trump di essere il responsabile morale e politico dell’assalto al parlamento degli Usa. Nel suo ultimo discorso ha spiegato al suo avversario che il presidente non è un monarca assoluto, che il Congresso non è una Camera dei signori, che la giustizia non è al servizio del potere esecutivo. Biden ha poi parlato della fragilità in cui versa la democrazia e della necessità di ricostruirla nei prossimi quattro anni, garantendo il ripristino della legalità e l’osservanza della Costituzione. Un appello che è stato accolto favorevolmente anche da tutti gli altri ex presidenti, a partire da George W Bush, il quale subito dopo gli scontri aveva condannato l’atteggiamento insensato di Trump e del suo esercito di estremisti. Proprio le prossime mosse del Tycoon newyorkese sono quelle che suscitano il maggiore interesse da qui al 20 Gennaio. Subito dopo la proclamazione di Biden, non smentendo la sua teoria dei brogli, Trump ha promesso che la transizione da qui al 20 Gennaio sarà ordinata e senza pericoli. Una parziale marcia indietro che, in virtù dell’imprevedibilità del soggetto, è stata accolta tiepidamente da molti anche nel suo stesso partito. Non è infatti una sorpresa che da ieri a Washington si sta ragionando su una possibile rimozione forzata del presidente attraverso l’applicazione del 25esmo emendamento qualora Trump dovesse tornare sui suoi passi. Dunque, come si può facilmente dedurre, la strada da qui ai prossimi 12 giorni è lastricata di incognite, di incertezze e di insidie. Il timore che ciò che è avvenuto il 6 Gennaio possa ripetersi non fa dormire sonni tranquilli a più di una persona. A essere in gioco è la sopravvivenza della democrazia americana e probabilmente non solo quella..

©2020 Nuove Frontiere. Tutti i diritti riservati

Vai su ↑